ETICA DELLE RELAZIONI PUBBLICHE1

di Giampietro Vecchiato





Il mondo ha bisogno di uomini

che non possono essere comprati,

che mantengono la parola data,

che stimano il carattere più prezioso del denaro,

che non esitano a correre rischi,

che sono altrettanto onesti nelle piccole come nelle grandi cose,

che non scendono a compromessi,

che non credono che la furbizia e la mancanza di scrupoli siano la migliore ricetta per il successo,

che non si vergognano né hanno paura di difendere la verità,

anche a costo di andare controcorrente.

J. Allan Petersen



Premessa


I miei studenti del Corso di laurea in Scienze della Comunicazione (Università di Padova) e in Relazioni Pubbliche (Università di Udine, sede di Gorizia) sono molto preoccupati per la continua crescita del livello di disonestà che caratterizza la vita economica e sociale del nostro Paese. In particolare gli studenti ritengono che i settori più a rischio etico siano quello della politica, dell’informazione e del mondo degli affari. Colpito dalla veemenza e dalla furia purificatrice con la quale attaccano i manager di Parmalat e Cirio, i politici coinvolti nelle intercettazioni telefoniche, i mass media per l’approccio utilizzato (ad esempio, nella vicenda di Erba) ho provato a chieder loro di rispondere dei loro principi etici.

Tutta un’altra musica.

Quasi tutti hanno ammesso di cercare di imbrogliare i professori, di copiare durante gli esami, di non poter/voler denunciare un compagno colto sul fatto, di non apprezzare chi è troppo bravo e si impegna per raggiungere il massimo dei voti. Convinto che non sia sufficiente un imbroglio all’università per affermare che una persona sarà poi disonesta nella vita e sul lavoro, ho provato, da una parte, ad approfondire la tematica con gli studenti stessi; dall’altra, ho cercato qualche ricerca più approfondita sull’argomento.

Dal dialogo con gli studenti è emersa una visione nettamente distante tra il mondo della formazione (scuola ed Università) e il mondo del lavoro. Il primo non è un mondo reale, ma viene considerato un mondo virtuale, staccato e governato da regole altre e diverse, il mondo degli ideali e dell’onestà. Anche se tutti ammettono di copiare e di cercare di ingannare i docenti e spesso anche gli altri studenti, questi sarebbero, sempre secondo gli studenti, “peccati veniali” che non avranno alcuna ripercussione sui comportamenti futuri in ambito lavorativo. In realtà, ciò che si evince è che gli studenti sono uomini e donne pronti a non rispettare le regole e disponibili a scendere a compromessi con i propri ideali abbastanza rapidamente, in vista di un vantaggio immediato.

Questa sensazione – perché di questo si tratta non avendo svolto un’indagine vera e propria – è stata confermata da una ricerca condotta nel 1993 e ripetuta nel 2002 dal giornale inglese Journal of Education for Business. La ricerca ci conferma che gli studenti che ammettevano di aver compiuto disonestà a scuola dichiaravano di compierne anche in ambito lavorativo. Sembra proprio che la distinzione effettuata dagli studenti sia frutto dell’immaturità e che la disonestà sia un stile diffuso e comune in tutti gli ambiti e a tutte le età.

La mia impressione è che la preoccupazione degli studenti per i crescenti comportamenti immorali “nel mondo reale” vadano di pari passo con la diffusa convinzione che, in realtà, quei comportamenti non siano niente di male, almeno fino a quando non vengono scoperti.

Io credo che l’etica non sia solamente una questione morale legata ai valori del singolo, né una questione di diritto legata alle norme e alle sanzioni previste per chi non rispetta le regole. Sono convinto che noi viviamo immersi in dilemmi etici ai quali dobbiamo quotidianamente dare risposta, senza automatismi e ricette preconfezionate, proprio perché il comportamento etico richiede di andare oltre il semplice rispetto della legge.

Insieme – studenti e docente - abbiamo deciso di metterci alla prova e ci siamo impegnati “a fare la cosa giusta anche quando non c’è nessuno che ci guarda”. Personalmente ho anche ritenuto opportuno mettere “nero su bianco” alcune note sull'etica delle relazioni pubbliche con l'obiettivo di far riflettere gli studenti e, insieme a loro, i lettori di Italiaetica.

Per farlo sono partito dalla convinzione che i relatori pubblici, ma anche gli altri professionisti della comunicazione, debbano costruire giorno dopo giorno i propri valori e riflettere sui dilemmi etici: una missione da condurre con volontà e tenacia, con l'obiettivo ultimo di portarli alla luce del sole, di condividerli, per dar vita ad una nuova cultura della professione, ad un comportamento senza opportunismi, senza se e senza ma.


Introduzione

La comunicazione d'impresa sta vivendo una crisi di credibilità e, nel suo ambito, i relatori pubblici sono i professionisti più vulnerabili. Si tratta di una crisi che ha origine nel gap tuttora esistente tra teoria e pratica della professione.

In Italia si stimano oggi settantamila comunicatori attivi per un indotto economico annuale superiore ai dieci miliardi di euro. Sommando però le adesioni alle diverse associazioni professionali, attualmente non si superano i cinquemila aderenti. L’implicazione è che meno del dieci per cento dei comunicatori professionisti in attività è sufficientemente consapevole del suo lavoro da sentire l’esigenza di far parte di un’associazione professionale. Ecco, questo è un indice esplicito della scarsa identità , consapevolezza e coesione della professione che comporta anche uno scarso senso della responsabilità sociale dei comunicatori, e non solo in Italia.

La scarsa identità e consapevolezza della professione, la conseguente mancanza di un codice etico universalmente riconosciuto e condiviso e le incertezze sulle competenze che debbano caratterizzare le capacità professionali, stanno minando la reputazione delle relazioni pubbliche. Già nel 1992 James E. Grunig, nel suo libro Excellence in Public Relations and Communication Management, aveva rilevato che la mancanza di rispetto verso la professione rappresentava una grave sfida, soprattutto per il clima di sfiducia in cui si trovavano ad operare i relatori pubblici. Se i professionisti del settore continueranno ad ignorare la questione, la credibilità della disciplina sarà sempre più a rischio. Le questioni ed i comportamenti che hanno portato i relatori pubblici sulla difensiva sono numerosi, ma i modi per salvare la credibilità e l'integrità della professione ci sono. In questo saggio, dopo aver presentato il ruolo della disciplina nella comunicazione delle organizzazioni, proveremo a mettere a fuoco i principali dilemmi etici con i quali i relatori pubblici devono quotidianamente confrontarsi e ai quali debbono trovare risposte esaurienti.

1. Etica e professione delle Relazioni Pubbliche

L’etica rappresenta da sempre un punto di riferimento importante e una componente irrinunciabile per ogni professione consolidata, perché contribuisce a rafforzare il “particolare contratto sociale che lega il professionista ai suoi clienti” (E. Invernizzi, 2002).

Il rapporto tra l’etica e le relazioni pubbliche può essere analizzato da diversi punti di vista:


In questo saggio approfondiremo solamente gli ultimi due aspetti con l’obiettivo di comprendere quale sia il ruolo agito dall’etica nelle Relazioni Pubbliche per consolidare e accreditare sempre più la disciplina nel panorama della comunicazione d’impresa. L'analisi dei principali dilemmi etici che caratterizzano la professione sarà preceduta da una breve presentazione della professione e delle sue caratteristiche.


2. Alcune definizioni di Relazioni Pubbliche


Il tentativo di definire le Relazioni Pubbliche ha portato nel tempo alle seguenti formulazioni che rispondono anche alle domanda “a che servono le RP” ed “a chi si rivolgono le RP”:


Le relazioni pubbliche sono la gestione della comunicazione tra un’organizzazione e i suoi pubblici”.

J.E. Grunig (1984)


Le relazioni pubbliche sono una disciplina della comunicazione d’impresa e fanno parte della scienza del management, che si occupa della gestione delle organizzazioni complesse. La funzione delle relazioni pubbliche è di contribuire al raggiungimento degli obiettivi di un’organizzazione con un’attività continuativa, consapevole e programmata di gestione e di coordinamento dei sistemi di relazione che si attivano fra la stessa organizzazione e i suoi diversi segmenti di pubblico influente. Un’attività che deve essere sempre trasparente, corretta, a due vie. In particolare, compito specifico delle relazioni pubbliche è quello di orientare opinioni, atteggiamenti, comportamenti e decisioni – anche di consumo – degli stakeholder-influenti: soggetti che possono ostacolare o agevolare il raggiungimento degli obiettivi di un’organizzazione perché dotati di specifici poteri decisionali o perché ritenuti in grado di influenzare i primi”.

Toni Muzi Falconi, Past President Ferpi (2005)


Sviluppare relazioni tra le organizzazioni ed i loro pubblici capaci di apportare un beneficio a entrambe le parti e basate sulla fiducia”.

Patricia Parsons (2005)


La professione di relazioni pubbliche è costituita da un’insieme di attività il cui obiettivo generale è di comunicare per informare e per influenzare l’opinione pubblica e i pubblici influenti al fine di creare benevolenza (goodwill), in un clima di comprensione reciproca tra l’organizzazione e i suoi pubblici. I servizi che ne definiscono il contenuto sono quelli di base, rappresentati dalle Relazioni con i media e dall’Organizzazione di eventi. Inoltre quelli specialistici, rappresentati dalle Sponsorizzazioni, dai Public Affair, dalla Comunicazione in situazione di crisi, dalla Comunicazione Finanziaria, dalla Comunicazione Ambientale, dalla Comunicazione pubblica e dalla Comunicazione per le piccole e medie imprese. I metodi dei servizi professionali, ovvero le modalità con cui vanno progettati, gestiti ed erogati i servizi stessi, riguardano la necessità che siano governati da principi etici; che contengano una fase preliminare di analisi dei bisogni; che la loro produzione ed erogazione sia di tipo processuale; che siano gestiti con metodi di tipo manageriale”.

Emanuele Invernizzi (2003)


Il fine ultimo del professionista di Relazioni Pubbliche è quello di agire e svolgere la sua attività professionale per accrescere la fiducia degli stakeholder e dell'opinione pubblici nei confronti dell'organizzazione”.

Fraser Seitel (1998)


Costruire relazioni basate sulla fiducia con tutti i pubblici dell'organizzazione (stakeholder, pubblici influenti, destinatari finali), per rafforzare la propria credibilità sociale, ambientale e finanziaria e la propria reputazione”.

Giampietro Vecchiato (2005)


3. Chi è il Relatore Pubblico

Cerniera con l’ambiente


Il professionista di relazioni pubbliche deve creare relazioni e gestire sistemi di relazioni strettamente interconnesse con gli interessi rappresentati.

Il relatore pubblico assume spesso il compito di interfaccia tra l’organizzazione ed i suoi pubblici (basti pensare al ruolo di portavoce o di addetto stampa) diventando il custode della reputazione dell’organizzazione (P. Parsons, 2005). Questa funzione assegna al professionista una responsabilità ancora maggiore, dato che deve assumere il delicato ruolo di “cerniera” con i sistemi maggiormente decisivi per il successo dell’organizzazione: la decisione pubblica (il governo, il parlamento, l’amministrazione pubblica, ecc.), l’opinione pubblica (i giornali, la televisione, i leader d’opinione) e la comunità (intesa come l'ambiente nel quale l’organizzazione è inserita ed opera).

Per aiutare l’organizzazione a dialogare con tutti questi attori, il buon professionista di relazioni pubbliche mette in gioco tutto se stesso, le sue conoscenze (persone, fatti, informazioni, analisi) ma, soprattutto, la sua abilità di farsi garante della credibilità dei contenuti e della trasparenza degli interessi rappresentati: deve usare, in altre parole, quello che alcuni studiosi definiscono come il “capitale personale” del relatore pubblico.

Prima ancora di essere un buon addetto stampa, un esperto organizzatore di eventi, un bravo creatore e miscelatore di strumenti di comunicazione, il professionista delle relazioni pubbliche deve quindi essere un instancabile tessitore di relazioni; un grande mediatore tra gli opposti interessi, un motivato portatore di istanze, dotato di forte credibilità, reputazione e autorevolezza. I requisiti fondamentali sono quindi così sintetizzabili: da una parte, credibilità dei contenuti oggetto della relazione (che sono “oggettivi”); dall’altra, la credibilità del comunicatore (che è interamente “soggettiva”).


4. Approcci teorici alle relazioni pubbliche


La storia delle relazioni pubbliche e la sua evoluzione a partire dai primi decenni dell’Ottocento negli Stati Uniti, può essere letta dal punto di vista del progressivo affermarsi dell’etica nella professione. Analizzando infatti i quattro modelli proposti da Grunig e Hunt (1984), si potrà notare come le relazioni pubbliche, da attività di propaganda attenta solamente agli interessi e agli obiettivi del cliente (o del soggetto emittente), sia via via diventata una professione che si fa carico degli interessi e delle aspettative di tutti i pubblici e di tutta la comunità. Vedremo inoltre come si consolidano nel tempo gli elementi di verità, trasparenza e integrità dei contenuti e quindi dei messaggi-chiave da trasferire.


4.1 L’evoluzione

Abbiamo visto nelle definizioni precedenti come le relazioni pubbliche sono una disciplina in continua evoluzione in quanto, trovandosi al centro del processo di comunicazione interagiscono incessantemente sia con la comunità economica che con quella politica. A loro volta tutte e due interagiscono con quella dell’informazione.

Storicamente gli approcci teorici a questo fondamentale “triangolo relazionale” sono tre:


Pur essendo in corso, soprattutto negli Stati Uniti, il tentativo di individuare un approccio teorico comune (vedi: “Handbook of Public Relations” curato da Robert L. Heath dell’Università di Houston), quello che consideriamo più coerente con le premesse concettuali illustrate è l’approccio “sistemico” di J. E. Grunig.


4.2 La teoria generale di J. E. Grunig


La teoria generale di Grunig – inizialmente elaborata nel 1984, rivista nel 1992 ed attualmente in fase di ulteriore rielaborazione – parte da un’analisi storica delle relazioni pubbliche che identifica quattro modelli applicativi, che a loro volta individuano quattro diverse modalità operative e, di conseguenza, quattro diverse tipologie di professionista.


4.2.1 Modello Press agentry o della propaganda


Non c’è attore, atleta, cantante, politico o imprenditore, che non abbia il suo press agent. Obiettivo principale del press agent è quello di “occupare” lo spazio sui media – facendo leva sulla relazione con il giornalista – e quindi richiamare indirettamente l’attenzione del pubblico-lettore. E’ il modello tipicamente adottato dal quotidiano bombardamento sui media di notizie (generalmente non vere nè verosimili) di questo tipo. Basti pensare alla cosiddetta “politica dell’annuncio”, approccio che ancora oggi caratterizza molte organizzazioni, società finanziarie e soprattutto, forze politiche, o all’invadenza del gossip.

Il press agent, il cui ideatore è considerato P. T. Barnum a metà Ottocento, non si preoccupa di ottenere l’approvazione, la comprensione o la condivisione dei pubblici.

E’ un modello che esalta il ruolo dei media – afferma Toni Muzi Falconi (2005) – ma che denota implicitamente una considerazione piuttosto limitata dell’autonomia professionale del giornalista e della sua funzione di “quarto potere” a tutela della corretta informazione del lettore in una moderna democrazia rappresentativa”.

Il modello è “ad una via” nel senso che l’informazione passa dal press agent al giornalista ed è asimmetrico nel senso che il giornalista “dipende”, per molti aspetti, dal press agent che detiene la “notizia”.

Barnum confessò una volta: “Sono profondamente grato a coloro che mi hanno fornito gli strumenti del mio successo, i giornalisti. Essi hanno dato vento alle vele del mio vascello. I giornali e le polemiche da essi suscitati sono stati di grande utilità al mio fine che, come appartenente al mondo dello spettacolo, era quello di avere sempre il mio nome in primo piano”.

Come si può comprendere Barnum non aveva alcun interesse a modificare gli atteggiamenti ed i comportamenti del pubblico, né voleva comunicare con i suoi pubblici; voleva solo risvegliare la curiosità e l’attenzione della gente, il che rientra perfettamente fra gli scopi della press agentry.

Il modello viene anche chiamato publicity e, secondo Jean T. Olson “si tratta di un modello il cui scopo principale è la propaganda” e viene utilizzato soprattutto quando l’obiettivo è “vendere” un prodotto/servizio.


4.2.2 Modello Public information o dell’informazione


Teorico di questo secondo modello è Ivy Lee, considerato uno dei padri fondatori delle relazioni pubbliche.


Anche in questo modello la funzione del comunicatore è quella di produrre le informazioni e trasferirle poi ai giornalisti perché le divulghino con l’obiettivo dichiarato di influenzare l’opinione pubblica in favore degli obiettivi dell’organizzazione, ma - diversamente dal modello precedente - il giornalista divulga le informazioni ricevute, avendo previamente chiesto, valutato, interpretato le informazioni stesse e deciso se e come renderle note ai suoi lettori, telespettatori, ascoltatori.


Fra l’operatore di relazioni pubbliche (la fonte) ed il giornalista (il media) si innesca quindi una relazione di fiducia e interdipendenza. Si tratta sempre di un modello “ad una via”, ma maggiormente simmetrico rispetto al press agentry. Il giornalista non è infatti solamente uno strumento nelle mani della fonte, ma gli viene riconosciuto un ruolo di filtro/tutela dell’interesse dei lettori: contrariamente al modello press agentry dove la verità non è un elemento essenziale, la verità è qui un criterio importante nel modello pubblic information per la definizione dei contenuti comunicativi.

Il modello public information si differenzia dal precedente anche nella fase di ascolto/ricerca che è pressoché assente nel primo, mentre nel secondo la ricerca mira a verificare se il messaggio è stato compreso e ha realmente raggiunto il destinatario. Prevale quindi la linea del “the public be informed” e comincia a farsi strada l’idea di comportamento etico.


Possiamo dire che oggi questo modello caratterizza il settore pubblico più avanzato e consapevole della necessità di una corretta comunicazione, parte delle aziende private, soprattutto del mondo finanziario.


4.2.3 Modello asimmetrico bi-direzionale o della persuasione scientifica


E’impersonato da Edward Bernays che ha introdotto e codificato l’uso delle ricerche sociali (sondaggi d’opinione, focus group, etc.) nella fase di ascolto e/o analisi del contesto “prima” della stesura del piano di comunicazione, non trascurando quindi la soddisfazione dell’interlocutore.

In questo ambito, Bernays ha per primo individuato e studiato il ruolo degli opinion leader quali amplificatori/moltiplicatori dei messaggi nei confronti dell’opinione pubblica: “E’ un modello che, per la prima volta, – afferma Toni Muzi Falconi (2005) – postula che le relazioni pubbliche non si rivolgono esclusivamente ai giornalisti o ai decisori pubblici; si riconosce infatti che ciascun segmento di pubblico può essere influenzato da altri soggetti, gruppi di persone, opinion leader”.

E’ dunque un modello “a due vie” in quanto introduce nelle relazioni pubbliche il concetto di feedback, pur senza dare garanzia di ascolto delle esigenze del destinatario del messaggio. Inoltre, è un modello “asimmetrico” perché il potere e gli effetti della comunicazione non sono ugualmente ripartiti tra emittente e ricevente e l’ascolto si propone la persuasione dell’interlocutore in funzione degli obiettivi stabiliti unilateralmente dall’emittente.


5.2.4 Modello simmetrico bi-direzionale “di Grunig” o della negoziazione


Sviluppato negli anni ’60-’70, è oggi diventato il modello di riferimento per gli operatori più accorti e consapevoli di relazioni pubbliche.

Rispetto al modello di Edward Bernays, la capacità di dialogare diventa l’elemento centrale del metodo e la principale competenza richiesta al comunicatore, il quale deve dare grande importanza all’ascolto, alla ricerca sociale e all’attenta analisi dei soggetti influenti e alle relazioni che li caratterizzano.

L’ascolto non è qui inteso come strumento per costruire prima e trasferire poi, messaggi efficaci ai pubblici influenti in funzione degli obiettivi specifici dell’organizzazione, bensì è vissuto e considerato come funzione utile per scambiare idee con altri gruppi, con la possibilità che le parti in causa finiscano per influenzarsi reciprocamente (“io vinco, tu vinci”) facendo percepire un effettivo valore aggiunto e costruendo un sistema di relazioni di qualità e a lungo termine.


Il professionista di relazioni pubbliche assume, qui, un ruolo di interprete attivo (sia pure sempre ed esplicitamente di parte) ed opera per creare e sviluppare quel dialogo, quella reciproca comprensione che consente all’organizzazione di raggiungere più agevolmente i propri obiettivi, incorporando nei propri, gli obiettivi, i valori e gli interessi dei pubblici influenti. Infatti, secondo Scott Cutlip (1994) per ogni organizzazione, si apre una questione di relazioni pubbliche ogniqualvolta una sua decisione può produrre conseguenze su altri soggetti, oppure, al contrario, quando il comportamento di altri soggetti può produrre conseguenze sulle modalità e sul successo con cui quella stessa decisione viene realizzata.


In questo modello la comunicazione è assolutamente reciproca ed i rapporti di potere sono equilibrati: è dunque un modello comunicativo “a due vie” e simmetrico: i termini “emittente” e “ricevente” vi sono difficilmente applicabili dato che l’obiettivo principale è la comprensione reciproca e la verità del messaggio o della notizia/informazione è un prerequisito fondamentale.


5. Etica e modello relazionale simmetrico


Come si evince da quanto detto fin qui, nell’approccio evoluto alla comunicazione come oggi intesa, le relazioni pubbliche contribuiscono all’efficacia di una organizzazione se e quando l’aiutano a conciliare ed a coordinare i suoi obiettivi con le aspettative (anche latenti) dei propri pubblici influenti, costruendo con questi ultimi relazioni di qualità, a lungo termine e basate sulla fiducia, sulla trasparenza, sulla credibilità.

Caratteristiche queste che permettono all’organizzazione di esistere e prosperare.


Il modello simmetrico bi-direzionale è, dunque, quello che per Grunig e Hunt (1984) meglio rappresenta un approccio autenticamente professionale alle relazioni pubbliche. Anzi, secondo P. Parsons (2005) l’essere “two-way symmetric” è requisito fondamentale per un approccio etico alla comunicazione d’impresa, intendendo, in particolare:


E’ la “relazione” il valore fondamentale, il criterio chiave per costruire le relazioni pubbliche e non la “comunicazione” genericamente intesa nè lo “strumento di comunicazione” utilizzato per trasferire i messaggi. In altre parole, non si può parlare – F. Ventoruzzo (2005) – semplicemente di comunicazione in quanto tale, ma di relazione, poiché gli interessi e gli argomenti delle fonti esterne sono rapportati con gli argomenti e gli interessi delle fonti interne. Il pubblico è considerato in base alle posizioni e agli interessi che manifesta e gli effetti della comunicazione sono misurabili.

La trasparenza diventa quindi la linea guida delle relazioni pubbliche e delle politiche di comunicazione sia nelle organizzazioni che tra i professionisti, attorno alla quale si consolida un costante riferimento etico, non più come elemento meccanico e di routine legato al solo rispetto della legge, ma come valore intrinseco all’agire professionale più accorto ed avveduto, un comportamento nell’agire quotidiano capace di non danneggiare gli altri, di considerarne anche i bisogni e le aspettative.



6. I pilastri etici delle relazioni pubbliche


Come già accennato in premessa parlare di etica nella pratica quotidiana del relatore pubblico significa analizzare i dilemmi etici che sono riconducibili sia all’etica personale che all’etica professionale.

Ma quali sono i pilastri – tra l’etica individuale e l’etica professionale – su cui poggiano le decisioni etiche nelle relazioni pubbliche?

Patricia Parsons, partendo dalla definizione già vista nel paragrafo 2, ne individua cinque:







Ogni singola azione, ogni strategia di relazioni pubbliche, deve essere attuata responsabilmente e senza danneggiare il pubblico, la reputazione del professionista e quella della professione: questa competenza richiede la costante ricerca di un equilibrio tra quello che si può fare e quello che è giusto fare.


Patricia Parsons afferma che “vivere secondo l’etica è un gioco di equilibrio e raggiungere un equilibrio è una questione molto delicata”. Per questo tutti gli interlocutori del professionista di relazioni pubbliche devono essere messi nella condizione di potersi fidare di lui.

Anche Papa Benedetto XVI, nel corso della settimana dedicata alla comunicazione sociale – che nel 2006 ha affrontato il tema della responsabilità etica – ha evidenziato come per rendere un servizio positivo al bene comune sia fondamentale l’apporto di tutti e di ciascuno. Nel portare il suo saluto ai partecipanti ha poi ribadito “che è necessaria una sempre migliore comprensione delle prospettive e delle responsabilità che il loro sviluppo comporta in ordine ai riflessi che di fatto si verificano sulla coscienza e sulla mentalità degli individui come sulla formazione dell’opinione pubblica. Non si può poi non porre in evidenza il bisogno di chiari riferimenti alla responsabilità etica di chi lavora in tale settore, specialmente per quanto riguarda la sincera ricerca della verità e la salvaguardia della centralità e della dignità della persona”.


Le possibili implicazioni pratiche e quotidiane dell’etica professionale e dei suoi dilemmi saranno approfondite nei prossimi paragrafi.

Quanto alle questioni etiche “personali” – che qui solo accenniamo - esse fanno riferimento ad aspetti che caratterizzano la persona e il suo essere in relazione con il mondo; pensiamo soprattutto alla responsabilità individuale, fattore che coinvolge l’integrità e l’onestà, la professionalità come impegno verso la qualità e la responsabilità dell’essere competenti, la fiducia come base per costruire qualsiasi relazione, il rispetto come base su cui poggiare la capacità delle persone a comportarsi eticamente, ed infine il valore della verità come uso onesto della persuasione.

Sono elementi centrali di una etica personale della comunicazione anche la congruenza, ossia la comunicazione autentica, l’onestà di giudizio e la disponibilità alla relazione, l’apertura all’altro e la reciprocità: lo sono anche la dedizione e la trasparenza intese come caratteristiche del rapporto che dovrebbe esserci tra il professionista ed il suo cliente/datore di lavoro e come misura della profondità dell’impegno e della partecipazione reciproca (la motivazione a “far bene” e a “volere il bene” dell’altro come dimensione etica).



7. Etica e contenuti operativi della professione


Se, come abbiamo visto, il fine ultimo del professionista di relazioni pubbliche è quello di agire e svolgere la sua attività professionale per “accrescere la fiducia degli stakeholder e dell’opinione pubblica, nei confronti dell’organizzazione” (Seitel, 1998), due domande sorgono spontanee:

a) nell’utilizzazione di quali strumenti di comunicazione si pone una questione etica per il relatore pubblico?

b) se, come sostiene Emanuele Invernizzi, “le relazioni pubbliche svolgono anche la funzione di garanti e di custodi dell’etica organizzativa”, dove si evidenziano le criticità etiche nell’agire quotidiano del relatore pubblico?

Le risposte alle due domande ci consentono di evidenziare gli aspetti della professione nei quali la questione “etica” si può maggiormente concretizzare:

- nel rapporto con il mondo dell’informazione;

- nel rapporto con la pubblicità;

- nell’azione per attivare una comunicazione responsabile;

- nello stile di comunicazione adottato;

- nei public affairs e nella lobby;

- nella gestione delle situazioni di crisi;

- nella comunicazione interna.


7.1 L’etica ed il mondo dell’informazione

PR: manipolatori di professione?


E’ convinzione generalizzata che se la comunicazione è sempre di parte o funzionale a chi la produce, l’informazione dovrebbe invece essere al servizio della verità e del pubblico-lettore. Che fare perché i produttori di informazione (i giornalisti) ed i comunicatori (in particolare i relatori pubblici) possano collaborare senza reciproche manipolazioni? Proviamo ad analizzare i diversi elementi che compongono la “fabbrica delle notizie”.

Un'indagine condotta da Agency Hanser & Associates (USA, 2004) sulla credibilità e sulla fiducia di cui godono i giornali rivela che il 68 % dei lettori ha più fiducia nelle informazioni relative ad un’azienda e/o a un prodotto quando leggono una notizia sul giornale piuttosto che sugli annunci pubblicitari. Il 23% dei lettori li considera equivalenti e solamente il 9% da più importanza all’annuncio pubblicitario.

Questa grande fiducia dei lettori nella notizia pone a tutti gli operatori della comunicazione alcune domande: è meritata questa fiducia? Le fonti sono controllate?

Credo che l’argomento meriti qualche approfondimento.


Le due categorie che oggi sono nell’occhio del ciclone – sia in qualità di vittime dell’overdose informativa che di protagonisti attivi nel crearla – sono, da una parte, i giornalisti e, dall’altra, i professionisti delle relazioni pubbliche:

L’operatore di relazioni pubbliche ed il giornalista hanno interessi diversi (il cliente per il primo; l’editore per il secondo) e pubblici diversi (il giornalista per l’operatore di relazioni pubbliche; il lettore per il giornalista) ma, se l’attività di relazioni pubbliche è basata sulla credibilità della fonte, è probabilmente compito del destinatario dell’attività di relazioni pubbliche (il giornalista) valutare fino a che punto sia utile, necessario, opportuno informare i propri pubblici che le fonti o le proprie opinioni possono essere state influenzate da operatori di relazioni pubbliche.


Per comprendere l’importanza del rapporto tra relazioni pubbliche e stampa e tutte le sue potenziali criticità, è sufficiente leggere il risultato di una ricerca condotta da Scott M. Cutlip, professore emerito dell’Università della Georgia, negli anni ’70 prima e alla fine degli anni ’90 poi: oltre il 50% delle notizie pubblicate dai giornali avrebbe come “fonte” un’attività di relazioni pubbliche/ufficio stampa. Il sistema delle relazioni tra relatore pubblico e giornalista è dunque talmente pervasivo che sorge assolutamente spontanea la domanda: “I relatori pubblici sono manipolatori di professione?”

La mia risposta è negativa: infatti ci pare in malafede chi parla, riferendosi alle relazioni pubbliche, di “persuasione occulta”, di “manipolazione” o peggio, anche se non si può semplicemente rifiutare e/o negare l’accusa, senza discuterla.

Chi è infatti il responsabile dell’informazione? Il giornalista che scrive il pezzo o l’operatore di relazioni pubbliche che – in modo chiaro e trasparente – gli ha fornito l’informazione? Alcuni studiosi sostengono che il problema riguarda unicamente il rapporto tra l’influente (il giornalista) ed i suoi influenzati (i lettori): “E’ compito del giornalista – affermano S. Windahl e B. Signitzer (1998) – chiarire al proprio pubblico chi sta effettivamente comunicando e nell’interesse di chi”. Un chiarimento in questa direzione porterebbe anche a identificare/distinguere con maggiore precisione i professionisti di relazioni pubbliche seri e preparati dai pseudo-comunicatori.

La manipolazione avviene sicuramente quando un professionista di relazioni pubbliche senza scrupoli, lavora per una organizzazione senza scrupoli e insieme incontrano un giornalista senza scrupoli. Un avvenimento che per avverarsi richiede la presenza di troppe coincidenze.

I garanti dell’autonomia e dell’indipendenza “delle notizie”, sia rispetto all’editore che al pubblico/lettore, sono il giornalista-direttore e i singoli giornalisti. Anche in questo caso il meccanismo è, almeno apparentemente, molto chiaro e trasparente.

In realtà, nel rapporto giornalista/fonte dell’informazione interagiscono numerosi scambi: il giornalista può assimilare completamente la prospettiva della fonte, presentandola come propria; le prospettive della fonte e del giornalista possono sovrapporsi parzialmente; oppure il punto di vista della fonte e quello del giornalista possono risultare totalmente diversi l’uno dall’altro” (S. Windahl e B. Signitzer, 1998).

Secondo Toni Muzi Falconi “fra operatore di relazioni pubbliche e giornalista si innesca una relazione di fiducia e di interdipendenza che normalmente dura fino a quando non viene messa a repentaglio da uno dei soggetti e cioè:


  1. quando l’operatore di relazioni pubbliche fornisce al giornalista informazioni non vere confidando che, grazie alla fiducia conquistata, questi non compia le necessarie verifiche;

  2. quando il giornalista, in modo improprio e imbarazzante, pubblica informazioni riservate, oppure, senza autorizzazione, le attribuisce esplicitamente alla fonte che, magari, aveva accettato di rivelarle a condizione di non essere citata.”


Sicuramente la relazione tra giornalisti e operatori di relazioni pubbliche è una relazione “sofferta”. Come detto, infatti, se il giornalista ufficialmente svolge un ruolo indipendente, il relatore pubblico è per definizione “di parte”, nel senso che il suo fine è rappresentare – afferma il compianto Franco Carlini (Il Manifesto, 8 febbraio 2004) – al meglio all’opinione pubblica le ragioni del suo committente che potrà essere un partito politico, un’azienda, una polisportiva, qualsiasi organizzazione abbia bisogno di farsi conoscere e apprezzare. In altre parole, i relatori pubblici, i portavoce, gli addetti stampa, sono diffusori di interessi legittimi ma certamente di parte. Il che però non li trasforma automaticamente in manipolatori perché in questo, come in altri casi, l’importante è la trasparenza. Trasparenza intesa come dichiarazione relativa alla propria identità, al soggetto che si rappresenta, all’obiettivo che si vuole perseguire.

Deve essere infatti chiaro e pubblico che il portavoce della Ford e quello di Emergency – prosegue Franco Carlini - propongono un proprio punto di vista, destinato a incontrarsi ed eventualmente a scontrarsi con altri punti di vista e interessi.

Starà ai giornalisti, all’opinione pubblica ed ai decisori politici ascoltarli e poi decidere in autonomia. Al riguardo il Codice di comportamento professionale adottato da Ferpi, l’associazione italiana che raggruppa i professionisti del settore, è molto esplicito: “Le attività di relazioni pubbliche devono essere realizzate con chiarezza e trasparenza, debbono essere immediatamente identificabili come tali, debbono offrire elementi chiari sulla loro origine e non debbono mai tendere ad ingannare o a far commettere errori a terzi”.

Il comunicatore deve quindi rendere sempre chiaro ai suoi interlocutori per conto di chi agisce e con che fini: niente sotterfugi, né mascheramenti. Più renderà chiaro il suo essere di parte, più sarà credibile.

Le due professioni sono “condannate” a lavorare insieme e a “dipendere” l’una dall’altra e non vi è dubbio che quando la relazione fra i due funziona bene, in linea generale il vero beneficio lo riceve il lettore al quale arrivano notizie più attendibili, più complete, più tempestive e interessanti.

I comunicatori illuminati e gli informatori coscienziosi – afferma Luca De Biase (2005) – dovrebbero potersi incontrare a un certo punto della loro carriera. E questo farebbe molto bene al sistema di fronte alle sfide competitive – sfide vere e non affrontabili con strategie manipolatorie – che sono proposte dall’attuale fase della globalizzazione.


7.2 L’etica e la pubblicità

Pubblicità e relazioni pubbliche: il regno dell’ambiguità?


La pubblicità è un settore della comunicazione integrata nel quale si attiva una relazione tra:


Il meccanismo è molto chiaro e poco “occulto”: l’inserzionista utilizza il suo messaggio (sotto forma di inserzione, di spot o di banner) per rafforzare l’identità di marca o stimolare un comportamento di acquisto; il lettore, acquista consapevolmente il media che sa contenere il messaggio di un inserzionista.


7.3 L’etica nella comunicazione responsabile


Nel 2003 ogni abitante di questo pianeta ha ricevuto in media 800 milioni di byte di informazione e dall’anno 2000 questo volume è cresciuto annualmente del 30% (fonte: Ricerca annuale della Berkeley University “How Much Info”). Si può a questo punto affermare che un comportamento etico del comunicatore sta anche nell’assunzione della piena consapevolezza del fenomeno e nel conseguente impegno ad operare per un progressivo disinquinamento comunicativo.

Disinquinamento raggiungibile attuando una forte riduzione dello spamming (off e on-line), insieme ad una più attenta, informata e ragionata selezione degli interlocutori (la mappa dei pubblici) con i quali avviare relazioni efficaci e/o semplici canali di comunicazione e feedback.

Non va dimenticato che la comunicazione più efficace nel medio periodo è quella basata sui comportamenti. Non si conoscono infatti gli effetti sulla persona di questa overdose di informazione che i “comunicatori-pusher” contribuiscono a creare, né sulla sua capacità di attenzione, concentrazione, selezione.

Ogni relatore pubblico deve quindi trovare una nuova consapevolezza e comportarsi di conseguenza. Tanto più che riducendo la spamming e selezionando con maggiore attenzione gli interlocutori, il relatore pubblico aumenta efficienza ed efficacia, migliorando quindi la rendicontazione e la valutazione della propria attività professionale.






7.4 L’etica nello stile della comunicazione

Comunicazione push e comunicazione pull


La cultura e, soprattutto, la strategia comunicativa delle organizzazioni sono, nel nostro Paese, prevalentemente push. L’emittente “spinge” il messaggio in direzione del ricevente e non stimola né favorisce quest’ultimo a servirsi di un canale di ritorno (feedback) e neppure tende a creare con lui una relazione paritaria (il ricevente è considerato solamente un bersaglio da colpire).

In pratica si comunica “a”; non si comunica “con”.

Come detto nel paragrafo 4, il modello comunicativo cui fare riferimento nelle relazioni pubbliche efficaci dovrebbe essere basato su una cultura organizzativa che considera la comunicazione come uno strumento per costruire una relazione diretta, interattiva e simmetrica. Molto spesso assistiamo invece ad una invadente e nevrotica ricerca di visibilità, intesa come valore da conquistare per affermare la propria identità/esistenza. Questa tendenza ha tre effetti negativi perché provoca:



Alla base della cultura push vi è il boom delle imprese negli anni ’80 e '90 ed il crescente valore assegnato alla comunicazione ed in particolare alla pubblicità. Negli anni ’80 le imprese perseguivano quasi esclusivamente l’immagine il cui obiettivo era quello di sommergere l’opinione pubblica di comunicazione, di spettacolo, di eventi ad effetto, per attirarne l’attenzione, per farsi conoscere.

Una comunicazione esterna per nulla coerente con quello che le imprese erano veramente nel loro agire quotidiano dove ancora prevalevano la scarsa comunicazione interna, il totale disinteresse per i clienti, la poca attenzione per la qualità dei prodotti/servizi, il totale asservimento dell’uomo al business e al successo.

Nella comunicazione è invece indispensabile comunicare ciò che si è realmente (fai quello che dici); in caso contrario la comunicazione diventa solamente “immagine” (effimera e poco credibile nel lungo periodo) o “propaganda” (non vera), con l’effetto di farci perdere la fiducia dei clienti/consumatori non appena questi scoprono la verità (quello che siamo veramente) o l’inganno. Questo fenomeno, di esasperata cura dell’immagine e di ricerca di visibilità, ha ritardato la crescita di una autentica cultura della comunicazione nel nostro Paese, privilegiando la cultura dell’apparire piuttosto che la cultura dell’essere, impedendo l’avvio di una reale comunicazione, simmetrica e a due vie, tra emittente e ricevente.

Dobbiamo recuperare una cultura della comunicazione nella quale sono gli aspetti pull a prevalere e dove quindi è il ricevente a decidere se, come e quando relazionarsi con l’emittente. Non si può in altre parole creare una relazione “uno a uno” a meno che il cliente non autorizzi esplicitamente questo procedimento.

Le relazioni pubbliche, i professionisti più accorti, sono già consapevoli del valore della relazione con l’altro come finalità principale di ogni azione comunicativa, pena la sua inutilità.

La cultura pull esalta il valore della relazione e diventa ancora più importante nell’era di Internet. L’ambiente comunicativo di Internet realizza infatti un modello interattivo, simmetrico, a due vie, che consente di saltare, nella relazione con il cliente finale ad esempio, l’intermediazione con il giornalista o con l’opinion leader, sviluppando teoricamente un numero infinito di contatti (relazioni) diretti e individuali.




7.5 L’etica nei public affairs e nelle lobby

La rappresentanza degli interessi con il processo decisionale pubblico


Possiamo affermare che il lobbista, nell’ambito di una democrazia caratterizzata da un elevato grado di partecipazione al processo politico, esercita il ruolo di “rappresentante attivo” delle posizioni e delle aspettative del “gruppo di interesse” o del “gruppo di pressione” di cui si occupa. La lobby è quindi una trasparente ed esplicita attività di rappresentanza di interessi presso la sfera politica e presso i centri di governo e decisionali.

Attraverso questa attività i portatori di interessi (le organizzazioni) cercano di influenzare le decisioni politiche affinché queste riflettano la loro posizione o almeno non prendano decisioni sfavorevoli.

Le relazioni tra lobby e decision makerafferma Michele Bellavite (2004) – assumono un’importanza decisiva per il consolidamento degli equilibri democratici, in ragione della portata collettiva e non solo particolare di una decisione pubblica che esercita effetti non solo su un’organizzazione ma anche su un intero settore o su parte della comunità. L’attività di lobby ha quindi come riferimento, da una parte, il processo decisionale pubblico e, dall’altra, l’organizzazione della quale promuove gli interessi”.

Lo strumento utilizzato per rappresentare questi interessi, per esercitare efficacemente una “pressione” sui decisori, è quello dell’informazione. Le lobby costruiscono infatti canali di comunicazione che permettono alla politica di entrare in contatto diretto con gli interessi reali ed esercitare il ruolo tipico di policy making (P. Trupia, 1989).

Le decisioni pubbliche, a ogni livello, hanno un impatto sugli interessi di questo o di quel gruppo e non possiamo certo immaginare che le persone o i gruppi che temono di essere danneggiati da una legge o da un provvedimento amministrativo rimangano inerti senza cercare di evitare o ridurre il danno.

L’idea che le organizzazioni cerchino un qualche sostegno nell’ambito della politica non dovrebbe scandalizzare più di tanto. L’idea che il mondo degli interessi e quello delle questioni pubbliche siano separati da una specie di frontiera invalicabile, se non è ingenua, è ipocrita. In altri paesi queste relazioni sono istituzionalizzate attraverso il riconoscimento formale delle lobby che hanno appunto la funzione di informare il mondo politico degli interessi dei vari gruppi e viceversa. In sostanza li si riconosce come un dato della realtà: l’interesse generale non è il contrario degli interessi particolari, ma la risultante dei loro conflitti. Nel nostro Paese - nonostante sia stato approvato il 12 ottobre 2007 il ddl sulla “Regolamentazione dell'attività di rappresentanza di interessi particolari” - si continua ad esibire la retorica di una politica estranea agli interessi e volta solo alla ricerca di un illusorio “bene comune” come se questo fosse un dato assoluto e obiettivo, e non fosse invece soggetto a interpretazioni contrastanti che sono poi la base della competizione tra coalizioni e programmi politici alternativi.


Secondo E. Bomberg e A. Stubb (2003) la lobby, laddove si configuri come un centro di rappresentanza degli interessi (….) assolve un ruolo di fondamentale importanza nel garantire che i processi politici, le pratiche di governo e, quindi, la realizzazione delle politiche comuni, riflettano in misura appropriata le istanze democratiche e la salvaguardia del principio di rappresentanza delle democrazie che la compongono.

Ciò non toglie che alcune questioni che caratterizzano la professione, come la trasparenza, la legittimazione, la rappresentanza, l’etica, i gruppi di pressione, non siano ancora sufficientemente chiarite e spesso portino ad associare l’attività di lobby con l’idea di pratiche di scambio illegali. In particolare, secondo l’organizzazione PR Watch, l’utilizzo dei “gruppi di pressione” può insidiare i principi democratici e/o entrare nell’area poco limpida della manipolazione o peggio.

Carl Byoir è considerato l’ideatore di questo “creativo” strumento di relazioni pubbliche. Infatti, quando il Governo degli Stati Uniti propose nuove tasse sui grandi magazzini A&P, Byoir suggerì al suo cliente di rivitalizzare alcune organizzazioni – la Commissione nazionale per le tasse sui consumatori e l’Associazione dei proprietari d’azienda – affinché, afferma J. Bleifuss, dessero vita a quella che oggi chiameremmo una “lobby indiretta contro le tasse”. Stando alle apparenze (P. Parsons, 2005) questi gruppi erano organizzazioni di base che davano voce ad una maggioranza, spesso silenziosa, della società democratica.

Qual’è, in questo caso, il punto in cui un gruppo di pressione valica il confine dell’etica? Quando questo strumento da luogo a una manipolazione e quando è soltanto un buon strumento di comunicazione e di relazioni pubbliche?

Diversi studiosi sostengono che non c’è ragione di ritenere che il funzionamento di una democrazia sia necessariamente distorto dall’attività dei gruppi di pressione che cercano di tutelare i propri interessi e diritti. Al contrario, secondo questi studiosi, i gruppi di pressione rappresentano un aspetto del pluralismo (a fianco della lobby dei petrolieri agisce la lobby ambientalista) che sarebbe errato eliminare anche se ciò non significa rinunciare a regolarne l’attività.

Evidentemente la costituzione di “gruppi di pressione” pone una questione etica. E’ etico fare lobby con gruppi di pressione di cui non si conoscono le finalità, i componenti, i finanziatori, gli sponsor? Allo scopo di evitare di cadere nel cono d’ombra della non chiarezza e della manipolazione è quindi fondamentale che il relatore pubblico non perda mai di vista i potenziali dilemmi etici in cui può rischiare di cadere.

Francesco Giavazzi (2005) ha più volte richiamato l’attenzione sui costi che ciascuno di noi deve sopportare per l’attività di gruppi di pressione che agiscono prevalentemente nell’ombra, senza alcun controllo dell’opinione pubblica. Nel nostro Paese le lobby agiscono prevalentemente attraverso contatti personali tra il “sedicente” lobbista e il decisore pubblico. Il Parlamento dovrebbe individuare una cornice di regole chiare e semplici per far si che l’attività dei gruppi di pressione possa aver luogo alla luce del sole, nella massima trasparenza e nel rispetto dei confini tra pubblico e privato.


7.6 L’etica nella gestione delle situazioni di crisi

Ammettere o negare nelle situazioni di crisi?


Nella vita di ogni organizzazione è molto probabile che prima o poi si verifichi una situazione di crisi. Quello che fa realmente la differenza tra un’azienda gestita con efficacia ed una che si affida all’improvvisazione è il modo di affrontarla e, soprattutto, di comunicarla. Questione centrale del processo di gestione della situazione di crisi è quindi quella di individuare una modalità di comunicazione chiara e trasparente fondata sulla verità delle informazioni e sulla tempestività nel gestire il flusso delle informazioni stesse.

False dichiarazioni e/o comportamenti poco trasparenti e manipolatori possono infatti mettere in gioco la legittimità e la credibilità del professionista, dell’azienda, della professione di relatore pubblico.

Va quindi posta una grande attenzione nel capire se siamo in presenza di una incapacità di comunicare da parte della coalizione che governa l’organizzazione (o di coglierne tutte le implicazioni) o se siamo in presenza della volontà di diffondere consapevolmente informazioni devianti o non veritiere.

Nel primo caso è in gioco la credibilità, l’autorevolezza e la professionalità del relatore pubblico ed il suo rapporto di fiducia con l’organizzazione. Inoltre, in assenza di figure professionali ad hoc o in presenza di una manifesta incompetenza da parte delle strutture interne dedicate a gestire la crisi, generalmente prendono il sopravvento altre figure professionali, avvocati in particolare, scarsamente abituati a governare processi comunicativi.

Nel secondo caso il comunicatore può invece essere “vittima” se viene tenuto all’oscuro dei fatti o non viene messo nelle condizioni di accertarli; ma anche “complice” quando conosce la verità ma si presta a violare la correttezza professionale, la completezza e la tempestività nel diffondere informazioni o attiva comportamenti poco chiari e poco trasparenti (oggi penalmente perseguibili).

Il tema della competenza e correttezza nell’utilizzo della comunicazione e sull’effetto che questa ha sull’informazione e sull’opinione pubblica – afferma Franco Guzzi, Past Presidente di Assorel – è centrale nella professione del relatore pubblico e diventa vitale nelle situazioni di crisi, sia che si operi all’interno dell’azienda che all’esterno (consulente o agenzia di relazioni pubbliche).

La comunicazione in situazione di crisi può quindi mettere in dubbio la professionalità e la competenza del comunicatore e riportare in primo piano la questione etica.

Saper gestire con efficacia e saper comunicare con trasparenza in situazione di crisi è uno dei momenti più significativi per la vita aziendale, che può essere percepita come affidabile, responsabile e professionale, ma anche come un’organizzazione poco credibile e inaffidabile.

Tutto quello che emergerà nella situazione di crisi, sia in senso positivo che negativo, resterà infatti vivo nei pubblici di riferimento per molto tempo.






7.7 L’etica nella comunicazione interna

Paternalismo o trasparenza nella comunicazione interna?


Comunicare serve a trasferire informazioni, a guidare persone, a motivarle, gestire conflitti, negoziare e a favorire l’interazione di gruppo. La comunicazione è uno strumento essenziale per il funzionamento di un’organizzazione e per il coordinamento di qualsiasi unità operativa. Parlare di comunicazione in ambito organizzativo è diventato più che mai importante negli ultimi anni e anzi non è più possibile parlare dei meccanismi che permettono di gestire e coordinare un’organizzazione senza affrontare il tema da un punto di vista comunicativo (G. von Krogh, 2000). Le ragioni di tale “invasione” vanno ricercate nei livelli di complessità raggiunti dalle organizzazioni; nella rapidità con cui i cambiamenti e le informazioni si diffondono all’interno delle organizzazioni stesse; nelle nuove tecnologie che hanno modificato progressivamente il modo di comunicare all’interno delle organizzazioni (E. Arielli, 2005).

Abbiamo visto che le finalità della comunicazione sono molteplici ma, nella comunicazione interna, ne vanno evidenziati tre: innanzitutto quella di diffondere e scambiare informazioni; in secondo luogo, quella relazionale utilizzata per costruire relazioni continuative nel tempo; ultima finalità assegnata alla comunicazione è quella di convincere e di influenzare in modo chiaro e trasparente i diversi interlocutori.

Va precisato che possiamo parlare di “comunicazione” solamente in presenza di quello che H. Paul Grice (1975) chiama “principio di cooperazione”, l’unico che permette e rende possibile un processo comunicativo tra due soggetti. La comunicazione intenzionalmente emessa e la volontà di cooperare, sono elementi centrali nella gestione delle organizzazioni perché legati alla dignità della persona e della capacità/possibilità di realizzare se stessa.

La comunicazione interna ha subito nel tempo diverse trasformazioni e, passando da un modello per trasferire informazioni forse addirittura paternalistico (G. Azzoni, 2006) del tipo “da pochi a molti” ed esclusivamente “a una via” si è via via trasformata in un formidabile strumento di comunicazione bi-direzionale, di coinvolgimento, di partecipazione e di motivazione delle singole persone.

Oggi, grazie alla comunicazione interna, possiamo parlare di dipendenti/collaboratori non più come di forza-lavoro impersonale e massificata, ma di stakeholder (portatori di interessi) destinatari di messaggi strategici (non solo ordini da eseguire!) e di cittadini dell’impresa.

Questo nuovo approccio alla comunicazione interna è caratterizzato da una forte valenza etica.

Un azienda infatti che non considera i suoi dipendenti come soggetti con i quali va costruita una relazione, è un’azienda che non tratta i suoi dipendenti come persone ma come oggetti. Secondo Gianpaolo Azzoni, vi è una connessione profonda tra la comunicazione interna ed il vissuto del lavoro in tutte le sue forme (clima, appartenenza, attitudine al cambiamento, formazione, ecc). La comunicazione interna consente alle singole persone di appartenere alla medesima comunità e di riconoscere gli altri come tali.

Questo approccio (bi-direzionale, che valorizza l’ascolto e rende attivo e protagonista il destinatario dei messaggi) è anche fortemente etico perché non si attua dall’alto verso il basso, ma costruisce una relazione all’interno di uno stare-insieme condiviso e partecipato, dove tutti gli attori in campo possono raggiungere i propri obiettivi.

In riferimento all’impresa e alla comunicazione interna, l’eticità comprende i diritti/doveri che rendono concretamente possibile un miglioramento delle relazioni con tutti gli stakeholder (a partire da quelli interni!) e, quindi, il miglioramento delle performance aziendali.

Nello specifico della comunicazione interna (G. Azzoni, 2006), l’eticità ha a che fare soprattutto con due concetti centrali nella filosofia contemporanea: l’eguale rispetto e il principio di cooperazione.

L’eguale rispetto è il dovere di non discriminare, emarginare o ingannare le persone. Sul piano relazionale questo dovere indica il riconoscimento ad ogni dipendente il diritto ad una comunicazione “minima” sugli aspetti essenziali del suo lavoro.

Strettamente connesso al rispetto troviamo il “principio di cooperazione” che, secondo il filosofo del linguaggio H. Paul Grice rappresenta la norma fondamentale alla quale possono essere ricondotti tutti i principi che regolano la comunicazione. In base al principio di cooperazione, chiunque partecipi ad un processo di comunicazione si aspetta che gli altri partecipanti diano il loro contributo comunicazionale nel modo richiesto dal contesto e dalle specifiche finalità della comunicazione. I soggetti, cioè, devono cooperare per capire e farsi capire. Se si comunica in modo non pertinente, poco trasparente, prolisso o elusivo, si viola il principio di cooperazione e si è poco etici.


8. La responsabilità sociale delle relazioni pubbliche


Abbiamo approfondito il tema dell’etica nelle relazioni pubbliche definendone i capisaldi (paragrafo 6), abbiamo poi identificato gli ambiti più critici per gli aspetti etici della professione del comunicatore (paragrafo 7) ed appena accennato ai valori personali che vengono coinvolti in un professionista della comunicazione che voglia avere comportamenti etici.

Vogliamo ora approfondire il tema della responsabilità sociale della comunicazione sia dal punto di vista del comunicatore, nel suo essere professionista, che dell’organizzazione, nel suo essere committente: si tratta di due valori strettamente legati, a maggior ragione quando il comunicatore lavora all’interno dell’organizzazione committente.

Per responsabilità sociale della comunicazione si intende una pratica professionale che tenga conto dell’interesse primario del datore di lavoro/cliente, ma che sia capace di tenere conto dell’interesse pubblico, nella piena consapevolezza che tra i due interessi non vi è necessariamente contraddizione. E’ una questione che a prima vista potrebbe sembrare ovvia, ma in realtà è assai controversa.

Per esemplificare, non vi è dubbio che il produttore di armi, di tabacco o di alcolici introduce sul mercato prodotti che, se consumati impropriamente, inducono danni all’individuo o alla società. Ma questo è vero anche per tanti altri prodotti o servizi assai meno “criminalizzati” dall’opinione pubblica (e penso alle automobili, ai farmaci, agli alimentari, agli alcolici, ai prodotti chimici…).

Qualche altro esempio. Una impresa investe in attività di Corporate Social Responsability ma mette preliminarmente in budget anche le multe che dovrà pagare all’Antitrust per la pubblicità ingannevole o sleale. Un’altra impresa concorre all’Oscar di Bilancio ma il suo ufficio stampa impedisce consapevolmente ai giornalisti di fare il loro mestiere rimandando fino alle 21.30 l’emissione di comunicati stampa sensibili per la Borsa. Un’altra ancora annuncia un’acquisizione o una fusione e si dimentica di informare prima i suoi dipendenti e quelli dell’azienda acquistata. Un’altra infine sostiene con dovizia di mezzi la ricerca sul cancro mentre finanzia l’associazione di categoria affinché svolga attività di lobby per dirottare su un altro capitolo di bilancio più favorevole i finanziamenti stanziati per la ricerca.

I comportamenti comunicativi delle organizzazioni sono spesso scollegati dalle dichiarazioni, dai proclami, dai codici, dalle missioni, dalle visioni e dai valori guida. Diciamo che la questione dell’etica della comunicazione non riguarda soltanto le imprese o i professionisti che vi lavorano, riguarda tutti, poiché i comportamenti comunicativi delle associazioni non profit e degli enti pubblici non sono certo migliori di quelli delle imprese private.


8.1 I punti di vista del professionista e del committente


E’ evidente come la responsabilità sociale della comunicazione vari sensibilmente a seconda del profilo interpretativo adottato dal professionista e dal committente. Vi sono tre profili che caratterizzano la comunicazione di (o per) una organizzazione, privata, pubblica, profit e no profit:

- aspirazionale: il comunicatore sviluppa, consolida, governa i sistemi di relazione dell’organizzazione con relazioni – bilaterali e tendenzialmente simmetriche – che contribuiscono alla qualità e alla quantità della “sfera pubblica” (nel senso di Habermas) e costituiscono una delle voci più importanti del valore dell’organizzazione;

- tradizionale: il comunicatore governa le relazioni dell’organizzazione con i media, la comunità locale, il processo decisionale pubblico e (talvolta anche) i dipendenti e la comunità finanziaria, organizzando eventi, preparando e distribuendo informazioni ai pubblici influenti sia in formato elettronico che audiovisivo e cartaceo. Questo secondo profilo non contraddice il primo, ma è più tecnico e operativo, con le sue radici affondate nella vita quotidiana del professionista comune;

- critico: il comunicatore svolge un ruolo unilaterale, asimmetrico e opacamente persuasivo per condizionare i media e gli altri pubblici influenti affinché supportino gli obiettivi dell’organizzazione, trasferendo contenuti non necessariamente rispettosi della realtà e/o in contrasto con l’interesse pubblico.


Ponendoci nel punto di vista del comunicatore, la questione in termini di responsabilità sociale non è tanto “per chi lavora”, quanto del “come lavora”. Infatti, dando sempre per scontato che la pratica professionale rispetti la legge, un comunicatore può anche trovarsi ad esercitare la sua responsabilità sociale in modo assai più efficace lavorando per un committente “discutibile” che non per un qualsiasi altro interesse.

Occorre aggiungere che se il comunicatore opera all’interno dell’organizzazione, assume la responsabilità di tutte le scelte che vengono compiute; mentre il comunicatore che lavora dall’esterno, è comparabile all’avvocato, nel senso che il suo mandato professionale si esaurisce nel rappresentare al meglio le posizioni dell’organizzazione di fronte al tribunale dell’opinione pubblica, oggi assai più importante di quello tradizionale.

Inoltre, il comunicatore, è socialmente responsabile non soltanto perché così salvaguarda e rafforza l’identità sociale della propria professione, ma soprattutto perché all’organizzazione che non comunica con modalità socialmente responsabili, gli stakeholder non rinnovano la “licenza di operare”. Infatti, malgrado i possibili vantaggi a breve ottenuti da attività di persuasione opaca e/o di politica dell’annuncio, nessuna organizzazione ha interesse a lavorare a lungo con comunicatori socialmente irresponsabili.

L’eventuale conflitto fra l’interesse di chi avvia la comunicazione e quello pubblico, se percepito dal comunicatore, va segnalato prima di avviare il dialogo con gli stakeholder, per dare al committente l’opportunità di modificare l’impostazione del messaggio.

Ma se questo non ha contenuti o forme in violazione di legge, il messaggio va poi trasferito agli stakeholder senza indugio. In questo senso è l’etica personale del consulente che può decidere sicuramente per chi lavorare o meno, ma non la sua etica professionale.


Dal punto di vista dello stakeholder, o committente della comunicazione, il comunicare con modalità socialmente responsabili è un vantaggio competitivo. Vi sono due modi per dimostrarlo: da un lato, le analisi degli economisti aziendali indicano che le imprese che comunicano in modo eccellente sono quelle che produco i migliori risultati finanziari, che attirano le migliori risorse umane e che hanno i migliori rapporti con l’ambiente; dall’altro, e forse paradossalmente, le migliori imprese sono quelle di cui i media non parlano quasi mai, e che invece “giocano” con qualità ed efficacia la partita sui mercati internazionali, senza chiasso e senza clamore.

E’ inoltre dimostrato un accresciuto interesse nei confronti della dimensione etica delle imprese così come detto per i professionisti: il mondo degli affari viene sempre più richiamato a trovare un equilibrio tra la ricerca del profitto e i propri comportamenti verso l’ambiente, la comunità, le persone, il business e invitato a riflettere e a non nascondersi dietro al motto: “business is business”. L’azienda etica, afferma Gianpaolo Azzoni, è quella che tiene conto delle 3P: Profit, Planet, People. Queste pressioni a favore di comportamenti etici sul mondo degli affari hanno forti ricadute anche sull’etica della comunicazione, soprattutto in considerazione del ruolo che essa sta assumendo nelle relazioni tra le organizzazioni e tra queste e i loro pubblici. L’insieme dei due fenomeni fa sì che i professionisti di relazioni pubbliche siano al centro del dibattito sulla questione etica e sulla responsabilità sociale proprio perché hanno spesso la responsabilità (operativa e morale) dei comportamenti delle organizzazioni e dei loro messaggi.

Già nel 1954 Peter Drucker, il più grande teorico del management scomparso qualche anno fa, affermava che “il compito principale del top management sarà quello di equilibrare le tre dimensioni dell’azienda: quella economica, quella di organizzazione delle risorse umane e, sempre più, quella sociale”.


Concludendo, la responsabilità etica in ambito sociale che fa capo sia al professionista che al committente trova criteri fondamentali di comportamento non solo nella trasparenza, come dichiarazione dell’obiettivo perseguito e delle modalità si intendono utilizzare per raggiungerlo, e nella veridicità, criteri di cui abbiamo già parlato, ma anche in altri: la chiarezza: le cose che dico sono comprensibili per coloro cui sono dirette? La completezza: le affermazioni sono complete o comunque lascio in ombra criticità note al comunicatore? Anche la tempestività è importante: le informazioni devono giungere tempestivamente senza privilegiare alcuni pubblici sugli altri. Un ulteriore indicatore importante è la correttezza: a chi faccio del danno diramando questa informazione? Un altro ancora è la rilevanza: questa informazione è rilevante per coloro cui è diretta o è del tutto inutile e superflua?

Tutto questo impegna il settore della comunicazione a cercare una convergenza tra i valori della professione - sia attuata all’interno delle organizzazioni che dall’esterno in regime di consulenza, i valori dell’organizzazione committente ed i valori dei pubblici con i quali l’organizzazione intrattiene relazioni

C'è, dunque un grosso lavoro per un “watchdog” che volesse indagare la responsabilità sociale della comunicazione delle organizzazioni e dei professionisti del settore.


8.2 Global Protocol on Ethics in Pubblic Relations


Come abbiamo già visto le relazioni pubbliche sono state spesso associate alle peggiori pratiche manipolatorie e, nonostante gli sforzi di molti professionisti e associazioni professionali nazionali, la reputazione della professione ha spesso sofferto per la scarsa considerazione “etica” da parte dell’opinione pubblica e “professionale” da parte della business comunity.

Basti pensare (G. Mersham, C. Skinner, 2005) al termine “spin-doctoring” spesso e sfortunatamente associato alla professione e per quanto si lavori duro per dissociarci da singoli e organizzazioni che praticano questa attività, per molti critici è facile e automatico addossare alle relazioni pubbliche gli stessi difetti, gli stessi comportamenti poco trasparenti e poco etici.

Peraltro va detto, che le difficoltà della professione di comunicatore, non sono riconducibili esclusivamente a problemi “interni” alla professione stessa, ma un deficit di credibilità è oggi riscontrabile in molte professioni nelle quali la responsabilità del singolo professionista (medico, avvocato, commercialista, amministratore o revisore dei conti, ecc) sono esposte a profonda critica nelle dimensioni sia etiche che degli standard qualitativi.

Proprio in relazione alle problematiche professionali descritte, è nata l'associazione che, a livello mondiale, rappresenta i professionisti del settore: è la Global Alliance for Public Relation e Communication Management, di cui fa parte anche l’italiana Ferpi, Federazione Relazioni Pubbliche Italiana.

La “Global Alliance for Pubblic Relation e Communication Management” sotto la guida di Toni Muzi Falconi e il canadese Jean Valin (il presidente oggi è il britannico Colin Farrington), da alcuni anni sta lavorando per promuovere un codice etico riconosciuto da tutti i professionisti del settore e per dotarli delle conoscenze e delle competenze per gestire efficacemente ma anche eticamente, la comunicazione.

L’adozione di un codice etico condiviso è ovviamente importante per la reputazione del professionista e dei suoi operatori; ma lo è anche per le aziende e le organizzazioni che sono alla ricerca di professionisti e strutture cui affidare le proprie strategie di comunicazione.

Probabilmente la crisi di fiducia nell’etica degli affari porterà le organizzazioni a rivolgersi sempre più spesso a professionisti che hanno accettato uno stringente codice etico e che aderiscono ad associazioni professionali in grado di “censurare” chi lo trasgredisce.

Il “Global Protocol on Ethics in Public Relations” è il frutto di un lungo e paziente lavoro che ha coinvolto oltre a Global Alliance, 60 associazioni nazionali in rappresentanza di oltre 150mila professionisti di relazioni pubbliche nel mondo.

Il Codice, approvato nel 2006 (per la lettura integrale vedi Scheda 1) è il documento-base per l’etica delle relazioni pubbliche e punto di riferimento internazionale per promuovere alti standard di relazioni pubbliche nel mondo.


8.3 Le performance comunicative


Possiamo legittimamente chiederci come mai i bilanci di responsabilità delle imprese rendicontano le performance economiche, ambientali e sociali ma non quelle comunicative.

Il ragionamento è ancora più importante se pensiamo che praticamente ogni canale di relazione fra l’organizzazione e i suoi pubblici passa attraverso strumenti comunicativi con la conseguenza che, prima di ogni altra cosa, è il comportamento comunicativo a dover essere socialmente responsabile. Ragionamento forse semplicistico ma, riferendoci anche agli esempi riportati nel paragrafo che precede, come si possono valutare i comportamenti comunicativi di una organizzazione dal punto di vista della loro responsabilità? Come misurare gli effetti di una comunicazione socialmente etica rispetto alle performance economiche del committente? Con quale metodo operativo utilizzare a questo fine i criteri ed i parametri comportamentali fondanti già enunciati? Come trasformare tali criteri e parametri etici in parametri di performance?

Nessuno ha mai cercato di rispondere seriamente a questa domanda. Eppure sono stati identificati, con dovizia di studi e ricerche, centinai di indicatori e criteri per valutarne le performance economiche, ambientali e sociali delle organizzazioni!




9. CONCLUSIONI


Un fenomeno è sotto gli occhi di tutti: la fuga dalla responsabilità individuale che caratterizza i comportamenti di molte persone.

Perché succede? Perché i manager di Parmalat si difendono affermando di aver solamente eseguito degli ordini?

Le cause di questo atteggiamento e di questa mancata assunzione di responsabilità – e che tradisce il concetto di libertà responsabile – ha cause antiche e profonde e vanno ricercate in diversi aspetti che caratterizzano il vivere civile nel nostro Paese.

L’uomo contemporaneo ha perso gran parte dei riferimenti naturali, istituzionali, ideologici e spirituali che, in un passato anche recente, erano in grado di aiutarlo ad esprimere valori e ideali capaci di dare un senso alla vita, sia individuale che collettiva. E, quando non c'è più rispetto, a tutti i livelli, per le regole e le leggi, anche quelle morali ed etiche, si finisce per non credere più a nulla e a perdere la fiducia negli altri e nella collettività.

La globalizzazione dell’economia e il progresso tecnologico e scientifico stanno provocando profondi cambiamenti nella vita quotidiana delle persone con una conseguente e progressiva riduzione dello spazio di previsione sugli effetti di lungo periodo delle azioni umane (sostenibilità). Un altro aspetto che ha contribuito a de-responsabilizzare le persone è quella visione della vita sociale che considera buono e sano tutto ciò che è collettivo, mentre tutto ciò che è individuale è cattivo e malato. Una delle conseguenze di tale atteggiamento è la costante contrapposizione fra mondo profit e non profit - ancora troppo marcata nel nostro Paese a causa di una forte e diffusa cultura anti-impresa che vede nel mercato e nel profitto la ragioni di tutte le ingiustizie sociali - non favorisce quelle reciproche contaminazioni che sarebbero invece utili per portare valori e ideali agli uomini d’affari e cultura d’impresa ai volontari del terzo settore.

La scarsa fiducia negli altri, la diffidenza nei confronti delle istituzioni, la prevalenza dell'interesse particolare sull'interesse generale, sono caratteristiche che una comunità prima o poi paga a caro prezzo, soprattutto in termini di coesione sociale.


9.1 Il senso di colpa e la vergogna


E’ urgente e necessario, da una parte, riportare l’uomo - e non un’astratta e impersonale società/organizzazione - al centro dei processi economici e dell’agire umano; dall’altra rivalutare la cultura della responsabilità individuale che va indissolubilmente coniugata con l’etica.

Solo l’intima riflessione (profonda, sofferta e per questo “tragicamente” individuale) e l’assunzione della cultura del rischio a fianco della responsabilità individuale, possono essere un antidoto forte e permanente alla degenerazione delle organizzazioni.

E’ in questa dialettica antropologica – afferma Joaquìn Navarro-Valls (Desk 1/2006) – il luogo dove si insedia il problema della propria identità etica: quel “dramma personale per eccellenza” dove si può assistere alla più tragica delle battaglie che l’uomo può intraprendere, cioè quella di negare, con la potenza della propria libertà, la verità da lui stesso riconosciuta come tale.

In altre parole il confronto va riportato al centro, all’interno dell’uomo, escludendo (o meglio ridimensionando) il possibile ruolo e giudizio del resto del mondo. Solo agendo in questa direzione è possibile parlare di etica, che deve nascere dalla sensazione di malessere che la persona prova di fronte alla “constatazione di aver compiuto un’azione non coerente con le proprie convinzioni o i propri principi” (Andreoli, 2003).

Il senso ed il limite etico di ogni uomo nasce infatti dallo scarto accettabile tra l’azione concreta (i comportamenti) ed i propri valori; tanto maggiore sarà lo scarto, tanto più consistente sarà il disagio individuale. Ritorna la domanda da cui siamo partiti: il desiderio di rispettare le norme nasce da un intimo convincimento interiore o dalla paura dell’eventuale punizione?

Nel primo caso possiamo parlare di senso di colpa che si origina da una disapprovazione intima e personale e da una reazione di dispiacere per aver fatto ciò che non si doveva.

Nel secondo caso possiamo invece parlare di sentimento di vergogna che nasce però dalla paura di essere scoperti (e puniti) dalla comunità e dall’opinione pubblica. In questo caso – afferma Andreoli – il confronto è tra un fatto e una legge, una norma. Il riferimento non è quindi ai principi e ai valori nei quali il singolo crede, ma alla morale sociale diffusa nella comunità. La vergogna si attiva solamente davanti agli altri, mai di fronte a se stessi; è tutta “esterna” e si basa sulla speranza di non essere scoperti.

La nostra (Andreoli, 2003) è una società della vergogna e non della colpa. Si fonda su una netta distinzione tra vantaggi propri e rispetto degli altri (….). Mancano, insomma, nella “legge dentro di me”, l’interiorizzazione del rispetto per l’altro e il sentirsi male se si opera contro l’altro. Se è vantaggioso lo si fa; l’importante è non essere scoperti o essere così forti da non temere il giudizio esterno.


9.2 La persona e l’organizzazione per un’etica della responsabilità


L’uomo - sia esso imprenditore o manager, dipendente o consulente - e non solo le organizzazioni, deve imparare a dire dei NO e, in qualche caso, deve anche imparare a “non fare ciò che potrebbe fare” (Emanuele Severino), perchè, tutto ciò che è economicamente o tecnicamente fattibile non sempre è eticamente praticabile. Il rischio è che le organizzazioni operino senza alcun investimento né impegno diretto per migliorare il mondo, come se l’agire economico facesse parte di un sistema filosofico, politico e sociale astratto e slegato dalla vita dell’uomo; il rischio è che le organizzazioni continuino ad ostentare (con la complicità di molti pseudo-comunicatori) una esasperata ricerca di visibilità attraverso la responsabilità sociale per lavare una coscienza troppo sporca e refrattaria a ogni cambiamento reale.

Ogni volta che prendiamo una decisione non possiamo eludere la domanda su quali conseguenze avrà la nostra decisione sugli altri!


L’etica non è una conquista definitiva. Non è acquistabile, né trasferibile ed è il frutto di precise e consapevoli scelte personali e del lento sedimentarsi di piccoli e quotidiani comportamenti che cercano di dare una risposta ai dilemmi etici che si presentano ogni giorno al relatore pubblico. Per questo guardo con qualche perplessità alla crescente attenzione che le organizzazioni hanno per la responsabilità sociale, quasi che fosse sufficiente essere “certificati”, adottare un “codice etico” e/o chiamarsi “impresa sociale” per essere eticamente corretti e socialmente responsabili.


Le organizzazioni sono eticamente neutre. I comportamenti umani, invece, non sono e non possono essere neutri : l’etica e la responsabilità sociale richiedono innanzitutto un soggetto-persona e poi un’organizzazione per esplicitarsi e diventare comportamento agito.

Etica ed economia; responsabilità dei relatori pubblici e responsabilità delle organizzazioni, vanno ricondotte ai diritti/doveri che caratterizzano ogni relazione tra le persone; tra le persone e le organizzazioni; tra le organizzazioni e i loro stakeholder.

Solo partendo da questa visione sarà possibile inserire a fianco delle tre “P” della sostenibilità – Profit, Planet, People – la “P” di public relation e percorrere la strada della rendicontazione dei comportamenti comunicativi basandosi su indicatori realistici e condivisi.


Etica personale (della persona), etica professionale (del professionista) e responsabilità sociale (dell'organizzazione) sono inseparabili. Senza una profonda visione morale ed etica, unita ad un alto senso di responsabilità delle singole persone, non può esserci responsabilità collettiva delle e nelle organizzazioni. Per questo motivo parliamo di etica della responsabilità, cioè di un’etica che si interroga ogni giorno, qui ed ora, sulle conseguenze che le azioni delle persone e delle organizzazioni possono avere sugli altri, sull’ambiente, sulla comunità, sulle generazioni future.


Appendice 1

Il Global Protocol on Ethics in Public Relations


Premessa

Un codice etico e di comportamento professionale è questione individuale da interpretare come guida per assumere decisioni fondate sui valori indicati.

In ultima analisi, ciò che conta è la performance etica, non i principi. Nessuno può indicare risultati precisi per ogni situazione. E’ possibile invece applicare valori comuni e processi decisionali che permettano di arrivare a una decisione e di giustificarla ai terzi.


Nell’assumere decisioni, siamo guidati da un elevato senso del servizio al pubblico nel suo insieme anziché a singoli soggetti specifici. Importanza primaria viene attribuita alla tutela della privacy delle persone e al rispetto dello spirito, oltre che della lettera delle norme vigenti.


1. Guida per il processo decisionale


  1. Definire la specifica questione etica/ conflitto.

  2. Identificare i fattori interni/esterni (ad esempio legali, politici, sociali, economici) che possono influenzare la decisione.

  3. Identificare i valori chiave in questione.

  4. Identificare le parti che verranno toccate dalla decisione e definire gli obblighi del professionista di relazioni pubbliche nei loro confronti.

  5. Scegliere i principi etici che guideranno il processo decisionale.

  6. Prendere una decisione e giustificarla a tutte le parti interessate e, se necessario, anche al pubblico più vasto..


2. I principi


Un professionista si riconosce per alcune caratteristiche:


I nostri principi professionali si basano sui valori fondamentali dell’individuo e sulla dignità della persona. Siamo convinti sostenitori del pieno e libero esercizio dei diritti umani, con particolare riferimento alla libertà di espressione, alla libertà di riunione e alla libertà dei mezzi di comunicazione, essenziali per un corretto esercizio dell’attività di relazioni pubbliche.


Nel servire gli interessi dei nostri clienti e dei nostri datori di lavoro, perseguiamo l’obbiettivo di una sempre migliore comunicazione, comprensione e cooperazione fra diversi individui, gruppi e istituzioni della società civile.

Inoltre, sottoscriviamo e sosteniamo le pari opportunità di lavoro e di sviluppo professionale nelle relazioni pubbliche.


Noi ci impegniamo a:


3. Standard Professionali

Siamo impegnati a praticare la professione con eticità, a salvaguardare la fiducia del pubblico e a perseguire una comunicazione eccellente con efficaci standard di rendimento, professionalità e comportamento.


Rappresentanza

Serviremo gli interessi dei nostri clienti e dei nostri datori di lavoro operando con modalità socialmente responsabili e diffondendo opinioni legittime nel mercato delle idee, dei fatti, e degli orientamenti, tali da favorire un dibattito pubblico informato.



Onestà

Aderiremo ai più alti livelli di accuratezza e verità nel promuovere gli interessi dei clienti e datori di lavoro.


Integrità

Condurremo le nostre attività con integrità e osserveremo i principi e lo spirito di questo Codice così da tutelare equamente la nostra reputazione personale, quella del nostro datore di lavoro e della professione delle relazioni pubbliche in generale.


Esperienza

Incoraggeremo i singoli ad acquisire un uso responsabile di conoscenze e di esperienze specializzate per rafforzare la comprensione e la credibilità del cliente/datore di lavoro.

Inoltre promuoveremo e arricchiremo la professione attraverso il continuo sviluppo della ricerca e dell’educazione professionali.


Lealtà

Insisteremo affinché i soci della associazioni aderenti siano fedeli ai loro rappresentati, onorando nel contempo l’obbligo di servire gli interessi della società e sostenendo il diritto alla libera espressione.


4. Esercizio della Professione


Crediamo sia dovere di ciascuna associazione o di ciascun membro delle associazioni aderenti:


1

Giampietro Vecchiato

Vice Presidente FERPI, Federazione Relazioni Pubbliche Italiana.

Docente a contratto di Teoria e tecnica delle relazioni pubbliche presso l'Università degli Studi di Padova e di Udine. Direttore clienti della P.R. Consulting srl di Padova.

Toni Muzi Falconi

Past President italiano della “Global Alliance for Pubblic Relation e Communication Management” e Senior Counsel di Methodos SpA, ha collaborato al capitolo 8.