ETICA D’IMPRESA, ETICA DI PRIMA PERSONA

di Michael Ryan LC1



In questi giorni si è diffusa una notizia che ha avuto una certa risonanza. Si tratta dell’iniziativa di un’impresa ungherese (KlimaFa) che offre una donazione al Vaticano perché sia dedicata a rimboschire un’isola denudata, allo scopo di controbilanciare così l’emissione di carbonio dello Stato del Vaticano. Un giornale riferisce la notizia con il titolo giocoso: Vatican penance. Forgive us our carbon output.

Lasciando da parte l’aspetto aneddotico – ed anche controverso, in questo caso, - lo riportiamo qui come una dimostrazione di quello che potrebbe significare l’etica in prima persona. Nel caso appena riferito, la Chiesa, come istituzione riflette sull’etica – dell’ ambiente –, e la insegna nella sua Dottrina Sociale, ma è anche cosciente che, come dice Aristotele, «non si studia l’etica per sapere che cosa è buono, ma l’etica è necesaria per diventare buoni».

L’etica approda alla sua perfezione nell’azione. Posso pensare di essere la persona più veloce nello stadio, ma se sono seduto in tribuna e non corro, non mi giova niente. Anche l’etica d’impresa deve essere presentata in questa prospettiva, come un’etica di prima persona2.

Uno potrebbe domandarsi perché tanto parlare dell’etica in questi anni non ha prodotto il frutto che si aspettava. Un parte della risposta è certamente questa: il discorso sull’etica d’impresa si fa spesso in terza persona, cioè si studia i casi in classe, si sentono discorsi, si discute sulla convenienza o meno delle regolamentazioni ma non si interpella sufficientemente i soggetti stessi. In questo articolo si fa un invito a introdurre o a aumentare nell’educazione etica delle persone d’impresa lo studio e l’analisi dell’esperienza morale. È necessario insegnarci – di nuovo – a percepire la «voce interiore» che ci accompagna nel nostro cammino umano, che ci orienta verso il bene, il bene vero. Oggi siamo reduci da una destrutturazione della filosofia, dell’etica; abbiamo dimenticato la tradizione in cui l’etica del mondo occidentale si basava e abbiamo sviluppato una etica d’impresa ­– anglosassone in gran parte – basata su teorie etiche che hanno rotto con queste tradizioni. Certamente l’etica d’impresa di questi anni ha fatto grandi passi e non vogliamo negare questo. Soltanto è necessario aggiungere la ricchezza che può apportare la riflessione esplicita sul vissuto morale e, concretamente, ritornare a sentir parlare della coscienza, un concetto stranamente assente nel discorso etico di oggi. È questo il cammino per fare un’etica in prima persona, che interpella e impegna le persone in profondità e ci fa capire come la questione dell’etica, nella impresa come in qualsiasi altra attività, è la questione più importante perché in essa noi stessi decidiamo che cosa siamo, qual è il nostro valore definitivo al di là di ogni appariscenza, al di là di ogni risultato economico.



Inflazione dell’etica

Perché si dia un’etica di prima persona, l’etica deve essere presentata in modo che faccia presa sulla coscienza delle persone. È notevole l’assenza di questa parola nella letteratura specializzata, nei convegni, nei seminari sul tema, e questa assenza non è un arricchimento ma un deciso impoverimento del discorso etico. Questo silenzio sicuramente non è casuale, non è innocente. La coscienza è popolarmente descritta come una «voce» e perciò pone la domanda: voce di chi? La discussione sulla risposta a questa domanda è fondamentale. Si mette in questione anche la risposta che dobbiamo dare ad un’altra domanda fondamentale: perché mi devo comportare in una forma anziché in un’altra? Qual è la motivazione del mio agire etico? La risposta a questa seconda domanda ci porta al fondamento dell’etica. Senza affrontare queste domande l’etica che assumiamo per guidare la nostra vita non avrà la saldezza dovuta e non penetrerà nel tessuto sociale in forma efficace.

Infatti, possiamo dire che la parola «etica» soffre oggi di una certa inflazione. Si può usare senza darle il peso giusto. In parte questo è dovuto al fatto che i suoi contenuti sono presentati senza le loro radici storiche. I concetti impiegati (bene, male, legge morale, valore) sono come alberi che si presentano in un campo ancora in piedi ma senza le radici e senza la linfa che una volta dava loro vita. È stata la filosofa inglese Elizabeth Anscombe a costatare questo negli anni ’50. In uno scritto che diventò una pietra miliare per la filosofia, Modern Moral Philosophy (1958), argomentò come i termini antichi del discorso etico sono diventati niente altro che il residuo vuoto dell’idea judeo-cristiana del Legislatore divino. Anche se la Anscombe stessa era credente considerava quella spiegazione etica praticamente morta. La mentalità odierna non accetta più queste convinzioni e, specialmente, la premessa di un legislatore. Secondo la Anscombe i filosofi hanno cercato di trovare un nuovo contenuto per questi termini sradicati, ma non vi sono riusciti. Allora sono stati obbligati a trovare alternative (molto sospette) usando come criteri, per esempio, il calcolo delle conseguenze. Il risultato globale è stato un’etica debole.



Fallimento dell’etica?

Non c’è stato mai così tanta attenzione rivolta all’ operato etico del mondo economico. Questa attenzione è cresciuta in modo esponenziale a partire dagli anni settanta quando si cominciò a parlare ed a insegnare l’etica degli affari: non c’è giorno che non vediamo sui giornali qualcosa sulle vicende dell’etica economica; nelle organizzazioni internazionali, nelle università c’è un esercito di persone al lavoro per elaborare documenti e regolamenti3, per avviare corsi su Corporate social responsibility, per elaborare bilanci sociali, ecc. Nonostante questo, ci rendiamo conto che i frutti non sono soddisfacenti.

Un libro interessante a questo riguardo è quello di E. Levi, Società a irresponsabilità illimitata. Tutta la verità sui manager italiani, (Rubbettino, Soneria Mannelli 2006). L’autore (pseudonimo) riporta come i grandi scandali di questi anni sono stati oggetto di preoccupazione da parte di molte persone esperte in materia. Per descrivere quello che è successo non hanno risparmiato parole forti nei loro testate di giornali. Leggiamo titoli come, per esempio, Salviamo il capitalismo dai capitalisti, Uccideranno il capitalismo, L’economia della truffa, L’impresa irresponsabile (p. xv). Ma, l’autore sottolinea ancora un aspetto che forse non riceve la stessa attenzione da parte degli autori e dei mass-media: la quotidianità della vita aziendale, dove interagiscono operai, impiegati, quadri, imprenditori e manager. Su questo livello, secondo l’autore, l’etica è scadente. Riportiamo un paragrafo forte al riguardo: «Corporate social responsibility, Stakeholder Society, Total Quality Management, Ethical Leadership, Leadership Partecipativa, Integrazione, Trasparenza ed altro ancora sono state e sono tuttora, parole d’ordine e pratiche, che conservano la loro validità oltre che attualità. Ma, con l’arrivo della new economy, dell’economia della finanza, dei capitali d’assalto, si è fatto strage di tutto ciò, in quanto costituiscono, probabilmente, paradigmi culturalmente antitetici. Nell’attuale pratica manageriale quotidiana, molte aziende agiscono in evidente contrasto con tali principi. E lo fanno consapevolmente. Nella convinzione, spesso dichiarata, che ciò fa bene al business» (p. xxi).

Possiamo dare il peso che vogliamo alla citazione precedente ma non c’è dubbio che se non riusciamo ad agire con efficacia sull’etica della quotidianità, se non riusciamo a riportare le persone alla loro esperienza morale intima, allora l’effetto etico totale non sarà profondo e duraturo. Per ovviare a questo rischio, l’unico modo consiste nell’ esaminare con attenzione il fenomeno stesso della esperienza morale. Spesso si parla di etica, ma non si parla così tanto dell’esperienza morale. Si discute dei casi, ma non se fa fenomenologia del punto stesso di partenza di ogni discussione: l’esperienza del fatto morale, la famosa «voce della coscienza». È questo che vogliamo sottolineare, perché siamo convinti che questa è una strada maestra per l’educazione morale delle persone che lavorano nell’impresa. Quando un uomo o una donna riesce a stare in contatto con la loro coscienza, quando hanno conosciuto il palpito del loro cuore morale, allora hanno la bussola indispensabile per trovare il modo migliore di agire. Non sarà sempre facile trovare le risposte giuste, ma il contatto con la bussola non li permette di allontanarsi troppo del cammino.





Alcune espressioni incomplete dell’etica d’impresa

Elizabeth Anscombe diceva che, rimossi certi punti di riferimento dell’etica, gli autori hanno cercato di trovare dei sostituti. Sostituti che lei ha definito «sospetti». Un effetto di questo è stato la diaspora di concezioni che si sono proposte, concezioni caratterizzate spesso da una certa «paura» di un’etica forte, per offrire al mondo del denaro un richiamo forte. Qualcuno ha espresso addirittura il sospetto che l’etica si era «venduta» al business.

In questi anni si è tentato di applicare all’impresa le diverse scuole di etica: utilitarismo, consequenzialismo, etica minima, etica del consenso. Quando diciamo «scuola» vogliamo dire che essa concepisce una determinata spiegazione dell’esperienza morale e ogni spiegazione ribadisce che è fedele ai dati originari dell’esperienza e che offre le premesse valide per dedurre le conclusioni più giuste per le situazioni concrete e particolari. Ma molte di queste scuole già non menzionano temi come legge naturale, natura dell’uomo perché attingono a quella etica moderna che, secondo quanto detto dalla Anscombe, hanno tagliato le loro radice, eliminando i riferimenti ultimi ad una Legislatore e ad una natura razionale dell’uomo che è misura del nostro giudizio. Non accettano la nozione di un criterio non soggettivo, che possa discernere tra giudizi veri e giudizi falsi, questi ultimi, magari, sinceri. Dice a questo riguardo la enciclica Veritatis splendor: «Alla loro radice [delle contestazioni] sta







l'influsso più o meno nascosto di correnti di pensiero che finiscono per sradicare la libertà umana dal suo essenziale e costitutivo rapporto con la verità. Così si respinge la dottrina tradizionale sulla legge naturale, sull'universalità e sulla permanente validità dei suoi precetti» (n. 4).

Presentiamo di seguito alcune teorie etiche di questi anni che illustrano il tipo di etica di cui stiamo parlando e in cui si vede la debolezza della proposta, una debolezza in qualche modo dovuta al «rispetto» che vogliono mostrare verso la realtà «dura» del mondo economico.

Un primo esempio è quello che limita l’agire dell’impresa all’ambito dei risultati economici in senso stretto. L’impresa è una realtà economica e il risultato economico sembra dominare qualsiasi altra considerazione. Come esempio di questa corrente di pensiero ricordiamo il classico articolo di Milton Friedman: The Social Responsibility of Business is to increase its profits4 in cui contestava la tesi della responsabilità sociale dell’impresa. In questo testo, l’autore ribadisce che lunica responsabilità sociale di un’impresa è quella di aumentare i profitti per gli azionisti. Questa convinzione si fonda un fatto semplice: i direttori che parlano di fini sociali sono delle marionette, vittime delle correnti intellettuali di moda che stanno minando la società libera. Soltanto le persone concrete hanno delle responsabilità. La responsabilità di un Direttore è quella di gestire l’impresa in accordo con le idee dei titolari di azienda: questi generalmente vogliono guadagnare il più possibile, compatibilmente con le regole della società in cui operano. In altre parole, il manager ha un dovere di fiducia verso gli azionisti, giacché questi affidano i loro soldi all’impresa allo scopo di guadagnare un beneficio. Se l’impresa o i manager si dedicano a fare azioni sociali, le fanno con soldi che non sono di loro proprietà. Oggi siamo lontani di questa unilateralità, ma queste idee sussistono ancora. Questa impostazione, come il modello economico dell’«homo oeconomicus » in cui si ispira, non corrisponde alla realtà, all’esperienza vissuta, all’esperienza morale delle persone.

M. Phillips5 è un altro autore in cui si può vedere l’impostazione economica dell’etica. Phillips dice che non si può pensare né in termini di norme



universali né in termini di scetticismo assoluto ma che si deve riconoscere il mondo degli affari come un ambito specifico con un insieme di regole stabilite socialmente e relative alle situazioni. La linea portante di queste regole sarà sempre la dimensione economica e la domanda “etica” si formula così: questa azione ci porterà dei benefici? Quando esiste un conflitto tra la dimensione economica ed altri valori della persona sarà necessario un compromesso ( trade off ) . Questo modo di pensare le soluzioni pratiche è certamente utile come procedura ma non come ultima spiegazione del rapporto tra persone. Oggi tutti hanno capito che una mentalità riduttiva non avrà la creatività, l’immaginazione per trovare soluzioni ci più ampio respiro ai problemi e, a lungo andare, risulterà dannosa per la stessa impresa.

Un altro tema ricorrente nelle letteratura è quello del «realismo» che deve caratterizzare l’etica d’impresa. Si presenta il mondo economico come un mondo sui generis, un mondo duro e per duri. Ricordiamo l’articolo di A. Carr pubblicato nella prestigiosa rivista di Harvard6. Carr ribadisce che il mondo dell’impresa ha delle regole proprie, come il gioco del poker ha le sue regole. Nessuno si sorprende, per esempio, dell’uso del bluff nel poker. Non lo facciamo in casa, con la sposa, con i figli; ma lo facciamo senza problemi nel gioco. Così anche l’etica dell’impresa deve lasciare spazio al gioco tipico del mondo della concorrenza. Le regole possono non coincidere con le regole dell’etica della vita privata ma questo non ci deve scandalizzare. Di nuovo, questa impostazione è stata criticata perché non corrisponde all’esperienza reale: le persone non vanno al lavoro con questa mentalità, sanno distinguere bene tra lavoro e un gioco. Inoltre, il lavoro non è un gioco perché la maggior parte degli uomini devono vivere del loro lavoro.

Abbiamo conosciuto anche l’applicazione all’impresa della teoria dell’«etica minima». Questa posizione afferma che non si può chiedere all’impresa un’etica troppo teorica, puritana o di “sagrestia”. Ethics without the Sermon (Etica senza il sermone) è il titolo di un articolo di L. Nash e il titolo stesso illustra la preoccupazione già accennata di rispettare l’indole propria dell’impresa e di non esigere un’etica non realista7. La Nash spiega la sua teoria con un paragone. La chiama «the good puppy theory. Ad un animale domestico noi chiediamo poche cose: non sporcare il tappeto e di non mordere il bambino. L’esigenza per l’impresa si può ridurre alla regola fondamentale: non nuocere, non recare danno volontariamente e ingiustificatamente. Di nuovo,







un’esplorazione attenta all’esperienza morale delle persone ci mostrerà che la comunità lavorativa di un’impresa (imprenditori, manager, impiegati, operai) non si accontentano con un’etica minima o, detto in altre parole, sono capaci di creare un ambiente di lavoro molto più ricco, più motivante, più giusto. Basta vedere in questo senso l’ambiente di alcune imprese dove le best practices sono molto apprezzate, celebrate e premiate.

Gilles Lipovetscky, sociologo francese, nel suo libro Il tramonto del dovere. L’etica indolore dei tempi moderni democratici (Testo orig.: Le crépuscle du devoir. L’étique indolore des nouveaux temps démocratiques, Gallimard, Paris 1992) ha fatto una descrizione del punto a cui siamo arrivati oggi nell’etica; una descrizione che ci deve fare riflettere se vogliamo davvero trovare un’etica valida per l’impresa. L’autore dice che siamo avviati ad un tempo in cui gli ideali della morale vecchia non si tengono più. Si riferisce soprattutto all’esistenza di norme universali: oggi sono considerate come un freno alla società. Si pensa che è meglio avere delle persone guidate dai loro interesse (self-interested people) anziché persone di buona volontà (good-willers). Si pensa che non dobbiamo cercare di negare le motivazioni interessate, ma semplicemente di moderarle; non dobbiamo esigere l’eroismo dell’azione disinteressata, ma cercare compromessi responsabili (trade-offs). Si pensa, infine, che dobbiamo giocare la carta della scienza, della ragione pragmatica e sperimentale e che questa morale sarà certamente meno dogmatica e meno esigente sugli individui ma più esigente sulle organizzazioni, meno sublime, ma più capace per correggere gli eccessi delle democrazie. Per quanto riguarda le imprese, Lipovetsky «ammira» il modo in cui hanno saputo vestirsi di valori morali e di trovare un’etica fatta a misura. «Con un rigore di principi da una parte, flessibilità pragmatica d’altra l’etica d’impresa è approssimativa e rettificabile, una figura nuova nel processo della secolarizzazione della morale. Si basa meno sulla tradizione morale e più sulla tradizione democratica, applicata in questo caso alla corporazione; corrisponde ad ognuno uno determinare con una delibera razionale i valori e le finalità; l’homo democraticus è un uomo che ha dato la sua anima alla corporazione»8. Anche se un’etica con queste caratteristiche può avere certe qualità per interagire con le imprese, per parlare in un linguaggio comune con esse, non ha, secondo quanto







stiamo dicendo, la forza totale dell’ideale morale, forza che sta presente nel cuore dell’uomo e di cui l’impresa può e deve fare tesoro.

Il linguaggio dell’etica si è secolarizza. Il risultato è un parlare dell’etica in una forma che evita la domanda sul fondamento. Per questo la motivazione per essere etici, per essere responsabili, scivola via. Vorrei citare come esempio di questo come un discorso sulla responsabilità sociale è stato imposto dalla Commissaria Europea per l’Impiego e Affari sociali, Anna Diamantopuolou. «speriamo e lo riteniamo possibile che le imprese responsabili faranno meglio e faranno di più. Sia che lo facciano per il loro interesse (enlightened self interest), sia che lo facciano nel perseguimento di mete più elevate9. Non sappiamo esattamente che cosa intendeva dire con l’espressione «mete più elevate» ma è chiaro che vengono menzionate in un secondo termine, dopo il motivo potente dell’interesse, come se le mete più elevate fossero eteree, o troppo soggettive per essere specificate. Crediamo che l’etica d’impresa ha bisogno urgente di esplicitare queste mete.

Ecco la sfida: sembra che non sappiamo nominare più i termini più forti dell’etica. Ma se ci rimaniamo sulle motivazioni immediate, queste da sole non danno al agire umano tutta la potenza di bene di cui l’individuo umano è capace quando, invece, fa ricorso alle molle più profonde. Certamente il fatto dell’intesse, del risultato economico sono importanti e corrispondono al linguaggio normale del mondo economico. Ma l’etica va descritta anche in un linguaggio suo, che conviene conservare perché i contenuti non vengano addolciti o annacquati. Ecco perché è importante fare ricorso all’esperienza morale. Esaminando con attenzione le sue diverse caratteristiche, l’etica avrà una presa più forte sugli operatori.













L’esperienza morale

Possiamo parlare di etica perché condividiamo un’esperienza comune, l’esperienza morale, che è universale. Quando diciamo «esperienza morale» possiamo pensare a quello che di solito chiamiamo «coscienza».

La voce della coscienza ha diverse tonalità. A volte è dolce e confortante, quando per esempio siamo stati generosi compiendo qualcosa che non rappresentava strettamente il nostro dovere. Altre volte, è una voce che ci conferma con disinvoltura che abbiamo fatto ciò che dovevamo fare. Quando abbiamo compiuto qualcosa di cattivo può avere, al contrario, un tono severo e causarci una sensazione interiore negativa e dolorosa. Questa sensazione è conosciuta con il nome di "rimorso", la percezione che qualcosa ci stia "mordendo" lasciandoci a pezzi. Ci sono altri stati interiori, altre esperienze morali ancora più complesse, ma in questo momento non è necessario addentrarci in esse.

Ad esempio quando la voce è incerta, dubbiosa o scrupolosa.

Il seguente elenco di domande può essere utile per identificare i momenti importanti di questa esperienza nella nostra vita.

Un retta comprensione di questa esperienza, che è un fenomeno unico dell’essere umano, da all’etica d’impresa una forza speciale. Questa esperienza diventa uno strumento essenziale per la comunicazione dei valori e per la comprensione di qualsiasi codice etico. Quando non si tiene conto di questo si parla dell’etica in una forma incompleta perché non si fa riferimento al principio interiore da dove scaturisce il vigore interiore che caratterizza l’etica.





Profondità e bellezza della coscienza dell’uomo

Da un certo punto di vista, l'esperienza etica è un'esperienza molto «normale», perché tutti la possediamo e la percepiamo da quando siamo bambini. Ma per il fatto di essere normale non smette di essere straordinaria. Come ben sappiamo, in molte esperienze normali si nascondono grandi profondità e grandi bellezze. Pensiamo al miracolo quotidiano della vista: l’occhio riceve la luce e ci fa vedere il mondo. Così nell'esperienza etica; la nostra anima in certi momenti tocca l'infinito e costruisce la nostra identità più profonda che ci fa guadagnare il cielo. Meditiamo, a questo punto, su un brano del Concilio Vaticano II, nel documento Gaudium et spes, n. 16 che si sofferma proprio sull’importanza dell’esperienza etica e in che modo questa coscienza è il luogo di incontro tra tutti gli uomini.

Nell’intimo della coscienza l’uomo scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla quale invece deve obbedire e la cui voce che lo chiama sempre ad amare e a fare il bene e a fuggire il male, quando occorre, chiaramente dice alle orecchie del cuore: fa’ questo, fuggi quest’altro. L’uomo ha in realtà una legge scritta da Dio nel suo cuore: obbedire ad essa è la dignità stessa dell’uomo, e secondo questa egli sarà giudicato. La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità propria. Tramite la coscienza si fa conoscere in modo mirabile quella legge, che trova il suo compimento nell’amore di Dio e del prossimo. Nella fedeltà alla coscienza i cristiani si uniscono agli altri uomini per cercare la verità e per risolvere secondo verità tanti problemi morali, che sorgono tanto nella vita dei singoli quanto in quella sociale. Quanto più, dunque, prevale la coscienza retta, tanto più le persone e i gruppi sociali si allontanano dal cieco arbitrio e si sforzano di conformarsi alle norme oggettive della moralità. Tuttavia succede non di rado che la coscienza sia erronea per ignoranza invincibile, senza che per questo essa perda la sua dignità. Ma ciò non si può dire quando l’uomo poco si cura di cercare la verità e il bene, e quando la coscienza diventa quasi cieca in seguito all’abitudine del peccato.











Da ciò che abbiamo visto possiamo adesso rilevare alcune delle caratteristiche principali dell'esperienza morale.

In una parola, non possiamo ridurre l’esperienza morale ad un'altra esperienza più semplice (tipo vergogna, pressione sociale). Non possiamo dire "è solo la mia emozione”, “la paura di qualcosa".


A causa di questo insieme di caratteristiche, che gli donano un aspetto “trascendente”, non facilmente manipolabile, l’esperienza morale è stata sempre affiancata alla dimensione religiosa. La chiamiamo, addirittura, "la voce di Dio".

La coscienza o esperienza morale è stata descritta anche in molte opere famose. Questo è segno della sua importanza, della sua universalità. Questi autori, attraverso la propria arte, ci aiutano a capire la nostra esperienza e a comprendere gli elementi che sono sempre presenti e che formeranno il contenuto della nostra spiegazione. Le opere qui di seguito descrivono aspetti diversi.







In primo luogo ricordiamo l’opera Antigone di Sofocle, che ci descrive come la ragazza spiega al re che ella sentiva qualcosa che la spingeva a seppellire suo fratello malgrado ci fosse una legge umana che lo proibiva. Forse noi non abbiamo dovuto affrontare situazioni di conflitto con una legge dello Stato, ma sicuramente abbiamo vissuto situazioni in cui, per essere fedeli alla nostra coscienza, abbiamo dovuto andare contro corrente. Ecco il testo:

Per me non fu il dio Zeus che diede quell'ordine, né fu la Giustizia che vive con i dei di sotto chi fece tali leggi affinché fossero seguite dagli uomini. I tuoi ordini non sono tanto forti come per superare le leggi non scritte ed infallibili dei dei. Esse stanno lì sempre e nessuno conosce il loro origine nel tempo. In modo che non andava ad offendere quelle leggi ed a trarre la punizione dei dei per paura dello spirito superbo di qualche uomo. Sapevo che dovevo morire, non è così? Ma se muoio prima del mio tempo, lo considero un guadagno. Come non vedere la morte come guadagno uno che vive tristezze tanto grandi come le mie! In modo che non è motivo di pena per me accettare questa fortuna. Ma se avesse lasciato il cadavere del figlio di mia madre senza seppellire, allora sé

Il seguente brano, al contrario, ci descrive il fenomeno del rimorso. Il testo è preso dal libro di Alessandro Mnzoni, I Promessi Sposi, e parla della famosa Monaca di Monza. Complice della morte di una conventuale uccisa perché sapeva del comportamento sregolato della suora. La Monaca cercava di dimenticare la vicenda, ma senza successo. Nonostante la vittima fosse morta e non potesse più accusarla, in realtà il problema non andava via.

Ma, quanto meno ne parlava, tanto più ci pensava. Quante volte al giorno l'immagine di quella donna veniva a cacciarsi d’improvviso nella sua mente, e si piantava lì, e non voleva moversi! Quante volte avrebbe desiderato vederla dinanzi viva e reale, piuttosto che averla sempre fissa nel pensiero, piuttosto che dovresti trovare, giorno e notte, in compagnia di quella forma vana, terribile, impassibile! Quante volte avrebbe voluto sentir davvero la voce di colei, qualunque cosa avesse potuto minacciare, piuttosto che aver sempre nell’intimo dell’orecchio mentale il sussurro fantastico di quella stessa voce, e sentirne parole ripetute con una pertinacia, con un’insistenza infaticabile, che nessuna persona vivente ebbe mai!





Il rimorso, benché sia la parte negativa della coscienza, è molto importante per mantenerci sensibili al bene. Peggio per noi se perdessimo questa capacità umana di reagire al male morale. Per capire, possiamo fare un paragone: supponiamo che, per equivoco, si posi la mano sul fuoco; immediatamente ci sarebbe la reazione di ritirarla. Se la mano, invece, avesse perduto la sua sensibilità, allora la reazione non ci sarebbe e si tenderebbe a pensare che non stia succedendo niente. Mentre, in realtà, la mano si sta scottando, per poi bruciare.

Quando scoppia uno scandalo grande nel mondo dell’impresa ci domandiamo come si può arrivare a essere così nefasti, perché non si accontentano di rubare qualche milione pero poi vivere tranquilli; perché esiste l’affanno di rubare in forma assurda. Conosciamo anche la risposta giacché sappiamo che possiamo sviluppare una dipendenza del denaro. Ma Alexander Solzhenitsyn, nel suo libro, l’Arcipielago Gulag, ci da una spiegazione forse più vera della coscienza che diventa insensibile al richiamo morale. Solzhenitsyn cerca di spiegare come è stato possibile per Stalin arrivare a quel numero di crimini e di assassinii che lo ha caratterizzato. Solzhenitsyn dice che possiamo capire che gli uomini sentano passioni e che, mossi da quelle passioni, facciano delle cose brutte. Parla, per esempio, di Macbeth e della moglie che uccidono il Re Malcolm. Ma, questi, dopo, sentono la reazione della loro coscienza e non possono dormire. Così, dice Solzhenitsyn, siamo dentro i limiti dell’esperienza umana: passioni, azioni, reazione. Ma come si spiega invece che alcuni uomini sembrano non sentire nessuna reazione di fronte al male - immenso - che fanno ? Questi esseri, dice Solzhenitsyn, a forza di negare la propria coscienza, oltrepassano la soglia ed «escono» dall’ambito della umanità e, a partire da questo punto, tutto risulta uguale. Il paragone con alcuni fenomeni fisici - l’effetto della soglia - offre una spiegazione. Quando si scalda l’acqua, in un certo momento, smette di essere un liquido e si converte in vapore, quando si raffredda e ad un certo punto si congela, cambia di «natura». Così può anche succedere con l’uomo: può forzare la coscienza al grado di oltrepassare la soglia e perdere la sua umanità.

Il meccanismo della coscienza che ci viene rivelata in queste narrazioni è molto interessante per capire la profondità dell’esperienza morale. Quante volte anche nel mondo degli affari ci domandiamo come mai si arriva a certi imbrogli, ingiustizie, scaltrezze così gravi.











Le caratteristiche dell’esperienza morale

La comprensione approfondita dell’esperienza morale ci fa capire l’etica in forma positiva. Spesso l’etica è vista in una luce negativa, come se si dedicasse a trasmettere proibizioni, limiti, indottrinamento. Per questo è frequente sentire la battuta «Business ethics, business what?» Come se l’etica fosse un nemico, un freno. L’etica, invece, è correlata alla ricerca della pienezza della nostra vita. Noi, uomini non siamo predefiniti, come gli altri animali. Un uomo può essere un successo o un fallimento e questo successo si costruisce da dentro. Ci sono troppo persone con successo esteriore ma che vivono una tragedia interiore. La vita buona, dipende del nostro pensare bene, scegliere bene, agire bene. Tutti vogliamo una vita riuscita. Nessuno vuole mancare il bersaglio più importante, costruire sulla sabbia. Sant’ Agostino lo diceva nella sua forma consueta. Ecco quello che potrebbe chiamare la ricetta per la bottom line della vita.

Chiedo a tutti: "Preferite godere della verità o della menzogna?". Rispondono di preferire la verità, con la stessa risolutezza con cui affermano di voler essere felici. […]. Ho conosciuto molte persone desiderose di ingannare; nessuna di essere ingannata. Dove avevano avuto nozione della felicità, se non dove l'avevano anche avuta della verità? Amano la verità, poiché non vogliono essere ingannate; e amando la felicità, che non è se non il godimento della verità, amano certamente ancora la verità, né l'amerebbero senza averne una certa nozione nella memoria. Perché dunque non ne traggono godimento? Perché non sono felici? Perché sono più intensamente occupati in altre cose, che li rendono più infelici di quanto non li renda felici questa, di cui hanno un così tenue ricordo. C'è ancora un po' di luce fra gli uomini. Camminino, camminino dunque, per non essere sorpresi dalle tenebre.10

Non è l’azione esteriore che importa, né il risultato esteriore, ma il segno che la qualità dell’atto lascia nel soggetto stesso. Scegliere il bene e scegliere bene è qualcosa che perfeziona il soggetto, la persona stessa. Questo è un pensiero dell’etica che ha una grandissima importanza giacché, con le nostre scelte, siamo noi i nostri propri genitori. È con questo pensiero che Giovanno



Paolo II spronava alla serietà etica nella sua enciclica Veritatis splendor già citata. Trascriviamo il testo in cui fa riferimento anche ad un testo splendido di S. Giovanni Nisseno. Credo che la portata per l’etica degli affari sarà abbastanza evidente.

Gli atti umani sono atti morali, perché esprimono e decidono della bontà o malizia dell'uomo stesso che compie quegli atti. Essi non producono solo un mutamento dello stato di cose esterne all'uomo, ma, in quanto scelte deliberate, qualificano moralmente la persona stessa che li compie e ne determinano la fisionomia spirituale profonda, come rileva suggestivamente san Gregorio Nisseno: «Tutti gli esseri soggetti al divenire non restano mai identici a se stessi, ma passano continuamente da uno stato ad un altro mediante un cambiamento che opera sempre, in bene o in male... Ora, essere soggetto a cambiamento è nascere continuamente... Ma qui la nascita non avviene per un intervento estraneo, com'è il caso degli esseri corporei... Essa è il risultato di una scelta libera e noi siamo così, in certo modo, i nostri stessi genitori, creandoci come vogliamo, e con la nostra scelta dandoci la forma che vogliamo».11

La vita dell'uomo non è chiusa su se stessa, ma aperta, e, in grande misura, da inventare. Essendo in grado di riflettere, l’uomo è capace di fare delle domande: che cosa è la mia vita? Che cosa sarà la mia vita? Che cosa posso decidere? Che cosa devo decidere? L’idea centrale dell'etica è questa: sono chiamato ad essere lo stratega della mia esistenza perché mi rendo conto che ci sono dei modi di vivere che sono migliori di altri. Cosa voglio? Che cosa devo volere? La maggioranza delle persone che lavorano nel mondo dell’impresa vogliono che le loro attività, decisioni e scelte contribuiscano positivamente al loro perfezionamento come esseri umani. Vogliono che le loro azioni portino felicità. Un’attenzione diligente alla loro esperienza morale sarà sempre uno stimolo per fare meglio, per fare il meglio e per vivere un’etica in prima persona.

1 Professore di etica presso l’Università Pontificia Regina Apostolorum di Roma.

2 La letteratura etica insiste su questa dimensione. Cfr. Aldo Vendemmiato, In prima persona. Lineamenti di Etica generale, Ed. Urbaniana University Press, Città del Vaticano 2004.



3 Ho letto in un numero precedente di Italiaetica Gennaio 2007 l’articolo eccellente di Marcello Condemi sull’etica e regolazione nella finanza. In quell’ articolo troviamo lo sforzo grande che si è fatto in questi anni per “regolamentare” l’attività finanziaria. Condemi elenca molti documenti sia degli Stati (hard law) sia delle strutture transnazionali (soft law): Comitato di Basilea per le regolamentazioni bancarie, Accordi su Capital (Basel I e Basel II), il Financial stability forum, lo International Organization of Securities Commissions - IOSC, l’International Accounting Standards Committee – IASC, International Association of Insurance Supervisors –IAIS, Piano d’azione per i servizi finanziari – PASF della Commissione Europea, Raccomandazioni del Comitato economico e finanziario _ CEF. Sembrerebbe sufficiente per garantire un operato etico, ma sappiamo bene che non basta la legge, neanche quella soft!

4 New York Time Magazine, September 13, 1970.

5 Philip, M., Between Universalism and Skepticism, Oxford University Press 1994.

6 Is business bluffing Ethical? Harvard Business Review, 46 (January-February) 1968.

7 Ethics without the sermon, Harvard Business Review, 59 ( novembre – dicembre ) 1981.

8 G. Lipovetsky, op. cit., p. 249.

9 Milano 2002 (enfasi nostra).

10 S. Agostino, Le confessioni, Libro 10, c. 23.

11 Veritatis splendor, n. 71.