SI PUÒ GIUDICARE UNA GUERRA?

di Maria Antonietta Del Boccio1


Immediatamente, quando si parla di guerra, si sente il bisogno di qualificarla con attributi legati al concetto di giustizia.

Robert Kagan 2 già nelle prime pagine del suo libro “Il diritto di fare la guerra” dichiara: “L’80% degli americani è convinto che la guerra possa essere uno strumento della giustizia, mentre quasi la metà degli europei pensa che una guerra, qualsiasi guerra, non possa mai essere giusta.” Il punto di vista che Kagan pone come discriminante tra l’atteggiamento del vecchio e del nuovo mondo - e che lo fa parlare di “scisma filosofico tra le due sponde dell’Atlantico” - in realtà accomuna i due mondi nel fatto di usare lo stesso parametro nel giudicare una guerra: il giudizio di legittimità viene ricercato comunque in un concetto di giustizia. Si parla comunque di “guerra giusta” o “ingiusta”, e ciò accade ovunque sia per i “pacifisti relativisti” (per i quali è scontato che alcune guerre sono “giuste”), che per i “pacifisti puri e duri” (per i quali tutte le guerre sono ingiuste).


Per i media e per il mondo politico, spesso l’analisi di “giustizia” si ferma alla valutazione se si tratti di una guerra difensiva o no, ancorchè condita da citazioni piatte sulle Crociate, sul Nazismo o su altri eventi della storia più o meno recente; in ogni caso le idee di chi sostiene una guerra o di chi vi si oppone, sembrano molto chiare e le opinioni sembrano molto nette, quanto basta per dirci “questa guerra è giusta” o “questa guerra è ingiusta”; quanto basta per farci dire a nostra volta “questa guerra s’ha da fare” o “questa guerra non s’ha da fare”.

Idee categoriche, come era già nel Medioevo quando si diceva: la guerra è un’arte nobile, l’uso di alcune armi è moralmente scorretto perché indirette o traditrici; alcuni periodi dell’anno o della giornata sono vietati a combattenti moralmente corretti, alcune attività guerresche devono essere vietate ai nobili. Categoriche come in S. Agostino quando affermava la guerra essere un dovere ineludibile per tutti, così come deve essere la risposta alla chiamata dell’autorità costituita a sostegno delle ragioni stesse della sua chiamata, qualunque esse siano.

Risposte diverse, ma ancora nette e categoriche sulla “giustizia” di una guerra sono date dal Corano, ma anche da Bush .… e da molti opinionisti e politici di oggi: ragionamenti e criteri semplicistici di assoluzione o di condanna, brevi e di impatto come slogan pubblicitari, utili a sollevare viscerali reazioni emotive, a creare ignari adepti o ciechi consensi ma che, tuttavia, proprio per il loro semplicismo non soddisfano né la logica né il sentimento di chi vuole esprimersi consapevolmente. Proviamo a guardare dentro questo facile metro di analisi che è la “giustizia”.


I politici, gli opinionisti, i media ci dicono: ”Una guerra è giusta se è accettata dalla morale corrente”.

Da questa ovvietà, nascono le prime domande: accettabile nei fini, nei risultati o nei metodi? Ciascuna o tutte queste qualifiche sono condizioni necessarie e sufficienti per definire una guerra giusta?

Le tre diverse opzioni sopra enunciate e le loro molteplici combinazioni hanno implicazioni diversissime che penetrano nel fondo della nostra cultura e della nostra sensibilità, tanto che un’analisi è possibile solo in termini di dubbi e domande.



Ragioniamo sul “fine moralmente accettabile”.


Ci dicono: la difesa è il solo fine accettabile.

Anche da questa ovvietà nascono diverse domande. Si può difendere una civiltà, un territorio, un principio, la sopravvivenza o anche solo la qualità di vita. E lo si può fare per il proprio Paese o per Paesi diversi, e in relazione ad una minaccia attuale o solo incombente su uno o più questi oggetti: oggetti che – sembra brutto chiamarli così – sono sempre e comunque “interessi di Parte”.


Ma anche le ragioni semplici e nette appena enunciate hanno, tuttavia, una valenza etica gerarchicamente decrescente; inoltre, possono combinarsi in varia maniera tra loro e possono fondersi con altre meno moralmente accettabili (quali l’arricchimento, il potere commerciale o le posizioni strategico/politiche) creando un mix sfumato e nebbioso rispetto al giudizio che ci si propone di dare su una specifica iniziativa di guerra.

Inoltre, in ogni guerra, ogni Parte ha molti partecipanti ed ognuno di essi può avere motivazioni composte da diversi mix di interessi: in questo caso, “esiste un particolare numero magico di nazioni alleate e concordi che conferisca la legittimità? – si chiede Robert Kagan – o vale anche la qualità degli alleati?”. Si può affermare – per sentirsi moralmente corretti – che sia giusta la guerra della Parte che difende il mix più accettabile, oppure occorre riferirsi, nell’assoluzione, ad uno specifico partecipante? E, considerando che se questo specifico partecipante si trovasse solo a combattere la sua guerra giusta la perderebbe miseramente, è lecito assolvere anche gli altri partecipanti ed i loro interessi? e, quali sono le basi logiche, se non giuridiche, per accettare una qualsiasi delle affermazioni precedenti?


Ma la questione si complica ulteriormente sul piano della logica se la difesa degli stessi interessi viene attivata per il proprio quotidiano o per una prospettiva di futuro: la guerra preventiva è illegittima follia o è dovuta preveggenza?

E ancora: un retaggio indistinguibile dal nostro senso di democrazia ci porta ad assolvere una guerra se è in difesa degli interessi di una qualche maggioranza. Ma la “maggioranza” tout court è un concetto troppo povero, per giudicare occorre prima chiarire se si tratta di una maggioranza dell’umanità o di una singola civiltà, di una specifica Comunità o di un solo Paese, oppure di ogni singolo individuo.

A seconda della risposta, le cose cambiano … cambiano molto…. e nel loro cambiare non acquistano nitidezza, bensì si fanno sempre più nebulose, più vischiose… ancora, hanno implicazioni profonde e sconvolgenti…. Mao Tse Tung, Gengis Khan Carlo Martello, ma anche lo sbarco in Normandia, Hiroshima, Corea del Nord, Cecenia, Afghanistan, il petrolio, Guantanamo, ….


E le domande di base non sono ancora finite.

E’ giusta una guerra che ha al momento della sua decisione fini moralmente inaccettabili (secondo i parametri semplici già enunciati), ma che si rivela negli anni, o anche nei secoli successivi, come gravida di esiti e di risultati che non possono essere considerati negativi? Come giudicare a posteriori l’espansione dell’impero Romano, la riunificazione del mondo arabo, la Reconquista spagnola, l’armata rivoluzionaria Francese, la crociata Baltica (solo per citare alcuni esempi)? Come qualificare oggi una guerra a noi contemporanea “ingiusta” o “giusta” quando non siamo in grado di valutarne tutte le implicazioni future nei secoli a venire?


Infine, parliamo delle ragioni più giuste, delle “ragioni delle ragioni”, i fini spesso posti davanti ai nostri occhi come sacralmente legittimi ed inattaccabili: “impedire un genocidio”,”intervenire per ragioni umanitarie”, “portare la democrazia in popoli oppressi”. La Cecenia, il Kossovo, l’Iraq, l’Afganistan ci hanno fatto parlare così, solo per citare i fatti più recenti.

Giustificazioni nette, eppure improprie alla luce della realtà e della storia; ragioni che si sgretolano miseramente davanti ad elementari considerazioni di logica.


Se fosse lecito ad una nazione imporre con la guerra le proprie regole di governo e/o le proprie priorità etiche, quale ragionamento potrebbe fermare Hitler dal portare la pulizia di Buckenvalt nel mondo o i guerrieri di Dio dall’imporre ovunque la medesima religione o i terroristi dall’instaurare il loro regime politico? Cosa potrebbe impedirci di aggredire chiunque o di essere aggrediti da chiunque per ragioni opposte, ma altrettanto forti ed altrettanto intimamente e sinceramente sentite?

Non sono forse tutti gli interessi dei popoli filtrati dalle rispettive tradizioni ed ideologie? Quanti di questi interessi soggettivamente acquisiti da una Parte in causa come moralmente ammissibili, possono essere oggettivamente ed univocamente riconosciuti come tali e condivisi da una logica collettiva? Quali e quanti degli interessi “moralmente accettabili” siano ragionevolmente tali e quanti siano solo supposti tali, o anche proposti come tali dai loro difensori?

Se la sovranità nazionale non venisse ritenuta sacra, se il senso di giustizia e moralità autorizzasse ogni nazione ad intervenire negli affari interni un’altra, su quali fondamenta potrebbe costituirsi un qualsiasi ordine legale?”..”Una volta che la dottrina dell’intervento universale si sarà propagata e verità contrapposte si sfideranno, rischieremo di entrare in un mondo in cui la virtù sarà presa da follia omicida” (Kagan).

Insomma, se si spezza il principio di non ingerenza in nome della difesa dei propri principi etici, chi saranno i candidati a sorveglianti? “chi sorveglierà i sorveglianti” (ancora da Kagan)? Ma soprattutto, chi o cosa farà maturare un popolo verso la sua propria civilizzazione se un altro si frapporrà violentemente tra lui e la sua crescita, tra lui e i suoi possibili filosofi, tra lui ed i suoi possibili leaders? Tema antico quanto il mondo, a cui altri hanno dato già risposte:

Voi vi avviate ad impegnarvi a conquistare la Germania, voi porterete le vostre armate vittoriose in ognuno dei paesi vicini per stabilirvi il vostro sistema di governo e voi siete convinti che questo sia un fine sublime. I nostri generali, sotto la vostra guida, diventeranno i missionari della Costituzione…I paesi stranieri invece di ostacolarci ci aiuteranno e ci spingeranno avanti. Ma è terribile che sia la Verità che il buon senso negano questa splendida visione. E’ nella realtà dei fatti che la Ragione può progredire solo lentamente tra i popoli, persino il peggior governo è fortemente appoggiato dagli usi, dai pregiudizi, dalla cultura del suo popolo. Il dispotismo produce tali danni nella mente umana che un popolo può persino amarlo, ed odiare la libertà. Nessuno ama i missionari armati e la prima reazione di ogni popolo e respingerli fuori dalle loro terre come per un nemico qualsiasi” (Robespierre, discorso contro la guerra chiesta dai Girondini per diffondere in Europa i principi repubblicani)


Forse è per non entrare in questo ginepraio che lo statuto dell’ONU, come principio fondamentale del diritto internazionale, difende la uguale sovranità di tutti i suoi membri, senza curarsi dei loro governi, delle loro dimensioni, del loro livello di democrazia o di dispotismo (Kagan).

Nel giudizio dell’eticità della guerra sotto il profilo del fine, neppure la Storia si porge aiuto, neppure il passato si può giudicare nettamente! Questa storia umana, fatta di guerre, costruita e plasmate con le guerre, in cui la guerra si è posta rispetto al verificarsi di eventi, non solo come strumento del pensiero e della volontà umana, ma anche talvolta addirittura come artefice cieca ed imprevedibile, sappiamo essere essa stessa inevitabilmente manipolata.

Vae victis!, “Guai ai vinti!” disse Brenno ai Romani sconfitti: la storia è sempre stata scritta dai vincitori. Questa ineluttabile verità consegna al vincitore il diritto-privilegio di riscrivere le ragioni delle guerre e di ricondurle sempre e comunque a “guerre giuste”. E tali saranno nella cultura dei vincitori almeno fino a che un diverso vincitore dimostrerà il contrario o quando il tempo avrà privato quella guerra dell’attualità delle passioni, restituendo poco a poco brandelli di verità provata.


Alla luce di tutte queste domande e di questi dubbi, non può forse ogni guerra essere rappresentata come una guerra legittima ed ogni partecipante come un difensore di supremi interessi? e non diventa forse molto sottile e sfumato anche il confine tra difesa ed aggressione?

Dunque, il metro di giudizio del fine, immediato o futuro che sia, appare inadeguato a giudicare le guerre della storia umana; anzi, è il metro dell’ accettabilità morale del fine che appare del tutto improprio. Esso diventa solo un criterio ipocrita e semplicistico attraverso cui ogni guerra può essere parimenti rappresentata come “giusta” o “ingiusta” e quindi, “da fare” o “da non fare” a seconda della volontà e della forza del veicolatore del giudizio, a seconda della sua abilità nel sommuovere le viscere dei suoi uditori.


Ragioniamo sul “metodo moralmente accettabile”.


Von Klausevitz aveva così espresso un concetto apparentemente ovvio: “Gli animi filantropici possono facilmente pensare che ci sia un modo perfezionato di disarmare ed abbattere il nemico senza causargli troppe ferite e che questa, appunto, sia la vera meta dell’arte della guerra. Per quanto ciò faccia un bell’effetto, bisogna distruggere questo errore, perché in cose rischiose come la guerra, gli errori che provengono dal buon cuore sono proprio i peggiori”.

Oggi, invece, vanno di moda le “bombe intelligenti”, la “guerra non contro i civili”, il “sostegno alla popolazione civile” con forniture di ospedali, acqua, medicine etc. Tutto questo appare agli occhi della popolazione occidentale assolutamente logico e giusto; questo basta a considerare la guerra come accettabile, queste sono le condizioni per cui l’opinione pubblica consideri la guerra come fattibile. I massacri devono esserci, ma mirati ai soli partecipanti attivi, le bombe sono “politically correct” se sono dirette a luoghi militari e non ad infrastrutture civili. Per contro, lo scandalo universale, la riprovazione della pubblica opinione, si scatena quando “per sbaglio” viene colpita una scuola, un autobus di bambini, un gruppo di donne e vecchi al mercato, quando un monumento viene distrutto. Allora, il mondo occidentale si interroga e si risponde da solo: “E’ giusta questa guerra?”, “perché non miglioriamo le tecnologie per evitare questi errori?”, “non è colpa nostra se tra vecchi e bambini si nascondono nemici”, “non è colpa nostra se anche vecchi e bambini sono partecipanti attivi alla guerra”, “non è colpa nostra se i nemici si fanno scudo dei monumenti e dei civili” e, infine, “ce la stiamo mettendo tutta per avere armi intelligenti, ma investiremo ancora di più”.

Parallelamente si svolge un'altra vicenda: quella dei “nostri soldati”. Loro devono fare la guerra, ma non devono morire. La morte anche di uno di loro è una sfida alla nazione, è una tragedia della nazione. Si contano uno ad uno…e, a un certo momento, a dispetto dell’intelligence, a dispetto delle tecnologie di protezione, diventano troppi. Sì, diventano troppi anche i morti ufficiali, i soldati con nome e cognome degli eserciti nazionali regolari, perché dei soldati arruolati dalle società private per “operazioni di sicurezza” che vengono da ogni parte del mondo per approfittare del businness o dell’opportunità lavorativa della guerra, di quelli non si sa neppure il numero, né tantomeno il nome. Ma tutti sappiamo che esistono, pochi giornali ne parlano… perchè il nuovo mercenario, con la sua sola esistenza anonima, turba l’opinione pubblica. Quelli sono morti predestinati, morti che camminano, come gli antichi gladiatori sono morituri per scelta; non importa se la loro guerra è sporca perché è la loro guerra non quella nostra che è pulita e civile con tutti i suoi ospedali civili ed i suoi aiuti umanitari.

E ancora una terza vicenda - scontata, banale, tragica - si svolge in parallelo: la guerra non finisce mai; i profughi, i fuggitivi, i senza tetto, gli orfani, gli emigranti, i clandestini si moltiplicano nelle nostre città; i soldi non bastano mai e le missioni vanno rifinanziate con nuove tasse; va rifinanziato l’aiuto umanitario e lo sforzo per ricostruire ospedali, istruire bambini, riparare musei. Allora l’occidente si interroga ancora e, ancora, si risponde da solo: “avevate promesso una guerra lampo, mentre questa dura troppo”, “avevate promesso una guerra senza perdite di vite umane, mentre i nostri ragazzi stanno morendo”, “avevate promesso una guerra a risparmio, mentre questa costa”, “avevate promesso una guerra utile agli affari, mentre qui tutti stanno perdendo soldi”; “non è colpa nostra se i nemici sono tanti, nascosti e continuano ad aumentare”, “noi siamo generosi, non possiamo abbandonare la popolazione civile”, “siamo a metà del guado, non possiamo mollare”.

Infine, puntuale, arriva la recita della scena dell’epilogo, della catarsi collettiva, l’auto Je accuse di intere nazioni, del deus ex machina per la conclusione onorevole: le manifestazioni pacifiste, i sondaggi, il consenso politico che crolla, le bandiere bruciate, politici, giovani, attori e cantanti davanti alle ambasciate, i megafoni, le fotografie, …”basta con la guerra”, “basta con i nostri morti”, “basta con le spese”, “trattiamo, chiudiamo, ritiriamoci…”


Tutto questo è una follia, una ipocrita, stupida e viscerale follia in cui pochi sono i manovratori e moltissimi i ricettori.

Basterebbe che questa folla viscerale che prima applaude e si inorgoglisce, e che si scandalizza e flagella dopo, si ponesse prima poche domande, basterebbe che interrogasse prima l’esperienza lontana e/o recente che questa povera umanità ha della guerra.


E’ banale: la guerra si è sempre vinta solo quando il nemico è stato sconfitto. “..lo scopo finale della lotta rimanga il medesimo: una delle due parti, a cagione del danno che subisce e dell'infiacchimento delle proprie forze, è costretta a desistere dalle proprie rivendicazioni o opposizioni. Ciò è ottenuto nel modo più radicale quando la violenza toglie di mezzo l'avversario definitivamente, cioè lo uccide". (Sigmund Freud, 1932)

Per farlo, occorre valutare il nemico prima di decidere una guerra; occorre sapere fino a quale livello di sacrificio è disposto ad arrivare per difendere le proprie ragioni, quelle ragioni che lo spingono ad accettare la guerra piuttosto che una qualsiasi altra soluzione. Occorre tenere conto che il livello di sacrificio da affrontare, non è proporzionale alle ragioni oggettive del contendere, né alle condizioni economiche / sociali del nemico, ma dipende più fortemente dal contenuto ideologico o ideale di tali ragioni, dalla cultura del popolo, da fattori che si alimentano del passato più antico, fattori che si sono dimostrati capaci innumerevoli volte nella storia di scatenare risorse imprevedibili e di rendere invincibili gli eserciti più miserabili. Tanto maggiore è il livello della capacità di sacrificio dell’avversario tanto più occorrerà predisporsi ad usare mezzi più costosi, più forti e più brutali.

E’ il generale americano impazzito in Vietnam del film Apocalipse now che rappresenta in tutto il suo orrore il significato profondo di questa necessità, e lo rappresenta in un modo che colpisce allo stomaco con moderna violenza, molto più di quanto non possano fare le razionali e lapidarie espressioni di Von Klausevitz “La guerra è un atto di forza e non c’è nessun limite nell’uso di questa”.


Dunque, sconfiggere il nemico significa sconfiggere le sue risorse materiali e morali, sia come comunità che come individui; “sconfiggere” significa inevitabilmente “distruggere” fino ad un livello superiore al limite di sopportazione del nemico, fino a superare il livello di sacrificio cui il nemico è disposto ad arrivare.

E allora, noi, i puri e i buoni della guerra, bisogna che ci chiediamo se siamo disposti ad arrivare al livello di atrocità, o di spesa o di sacrificio necessari a superare tale limite.

E, allora, quando un nemico in guerra è formato da madri disposte a strangolare i propri neonati per ridurre il rischio, da uomini disposti a divorare i propri simili per superare la fame, di famiglie disposte a far combattere i propri piccoli per aumentare la sorpresa, disposti a distruggere i propri villaggi per non lasciare risorse, i propri monumenti, i propri simboli e le proprie risorse naturali, cioè quando un nemico dimostra di non porre limite al sacrificio che è disposto ad accettare, che questa capacità a subire di persona è di gran lunga superiore alla nostra sopportazione rispetto al solo “guardare”, al solo “sapere”… allora… allora NOI la guerra non la possiamo fare, perchè è già persa.


Ma questo non ce lo dice nessuno, non ce lo spiega nessuno.


E, in questi termini, l’occidente ha molto da perdere. La nostra cultura, i principi che abbiamo assimilato nei secoli e che percepiamo in modo non sempre consapevole, il benessere che abbiamo raggiunto grazie alle generazioni che ci hanno preceduto e, non ultimo la tolleranza per la colpa che ci viene dal più lontano passato, il rispetto della vita e dell’innocente, la selezione degli innocenti e la loro salvezza (“Se in Sodoma ci fossero cinquanta uomini giusti, li faresti perire insieme agli altri? Oppure non perdoneresti tu la città per amore dei cinquanta giusti che vi potrebbero essere? Lungi da te far perire il giusto insieme con l’empio, trattare il giusto come il colpevole!” Genesi 18.24) pone il nostro livello di sacrificio ad un punto infinitamente più basso.

La cupola di S. Pietro vale più di migliaia di uomini, un bambino vale più di decine di uomini, un “uomo nostro” vale più di centinaia di nemici, tutti insieme valgono più di un quantità enorme di soldi che siamo disposti a spendere; una quantità enorme, sì, ma sempre inferiore al limite che ci porterebbe alla povertà.


Ma se la “non guerra” comportasse un rischio concreto, fisico, tangibile per tutto ciò che amiamo, per tutto ciò che siamo, per il nostro presente, futuro e passato; se le argomentazioni a favore della guerra sollevassero tutta la forza della ragione, dell’idealità, dell’ideologia o del fanatismo al punto da far innalzare sia il nostro livello di sacrificio che la nostra capacità di giustificazione delle atrocità (e delle spese), allora bisognerebbe pensare a vincere, solo a vincere, senza ipocrisie, senza buonismi, senza regole, senza contare né vite, né villaggi, né soldi, né bambini.

Questo dice la logica più elementare. Da questa logica che è umana e in qualche modo universale, che è quella di sempre, quella “che esiste da che mondo è mondo”, è da sempre derivato una sorta di equilibrio, un patto non scritto tra i popoli per cui la guerra si fa solo quando non se può fare a meno.

La guerra di oggi invece, quella che viene quotidianamente presentata, quella governata dal visceralismo, la guerra intelligente, la guerra “giusta”, non impone il requisito della “necessità” perché è assolta a priori nei suoi fini fittiziamente morali, e nei suoi metodi fittiziamente signorili e puliti, perché non comporta dover rispondere a domande dure, primordiali come “è una necessità vitale questa mia causa?”, “quanto sono disposto a fare per questa causa”, “quanto sono disposto a subire per questa causa”; è una guerra che si può guardare alla televisione dato che - guarda caso, viene sempre portata a domicilio nei paesi più poveri - pensando “noi siamo i buoni”, “poveracci!” o “gli sta bene!”.

Rischia dunque, questo tipo di guerra, sì proprio questo tipo…quella pulita, buona, generosa, quella degli ospedali e degli aiuti umanitari, di essere una guerra inutile, non giustificata, immorale.


Se dunque la giustezza morale del fine della guerra non è un metro adeguato a giudicarla ed a deciderne l’accettabilità, se dunque il metodo della guerra è intrinsecamente qualcosa che nulla a che fare con l’idea di morale e di giustizia, allora, oggi occorre smettere l’abnorme ipocrisia di voler giudicare – e far giudicare – le guerre dividendole in buone e cattive, in morali e non, in generose e non, in pulite e non, perché questo metro di giudizio diventa lo strumento per ingannare, manipolare, confondere e paralizzare la ragione. Allora, occorre che, onestamente e pragmaticamente, lo strumento di analisi e di giudizio della guerra non sia la giustizia, ma la necessità nel senso più lato, soggettivo, difficile ed individualmente responsabilizzante del termine. Ed occorre dire chiaramente che una guerra che oggi non si combatta per una vitale, estrema, categorica necessità di parte è una guerra che si perde (resti il Vietnam a memoria futura).


Davanti all’ovvietà più eclatante, davanti alla contraddizione delle teorie più classiche e logiche che ci viene imposta quotidianamente laddove ci venga prospettato il giudizio morale del fine e/o del metodo per farci accettare o approvare o pagare una guerra, resta dunque una sola domanda da farsi: se qualcuno vuole ancora convincerci a dichiarare questo tipo di guerre, se ci facciamo convincere sulla giustezza delle motivazioni e continuiamo a farne, se continuiamo a perderle e di nuovo a farle, se l’intellighenzia (quella che non può farsi affumicare da ragionamenti perversi e viscerali) elude le domande più elementari ed evita le risposte più oneste, distribuendo ovvietà semplicistiche, non può essere che la ragione della guerra non ci sia, che non ci sia niente da vincere perché non c’è niente da difendere, che il suo obiettivo non sia la vittoria, ma la guerra in sè?

Che, infine, siamo in presenza di una manipolazione dell’opinione pubblica in cui tutte le vite e le morti, tutte le atrocità e le sconfitte, tutte le vuote parole sulla “giustezza” siano poste sul piatto di una bilancia che vede dall’altra parte solo l’interesse privato di pochi?

E, infine, non rischia di accadere come al famoso pastore della favola ma in termini immensamente più drammatici, che quando fossimo davvero vicini al baratro della “necessità vitale”, tutti noi, sfiancati dai distinguo dei pacifisti relativisti, colpevolizzati dai pareri dei pacifisti duri e puri, inibiti nelle nostre facoltà dall’abitudine a ragionamenti semplicistici, privati della forza di responsabilizzarci dall’abuso di dogmi morali, non troveremo parole né atti, nè ragionamenti capaci di smuovere le nostre energie più profonde e farci accettare con la determinazione necessaria tutte le più funeste conseguenze e le più atroci implicazioni?


Ma tutte queste domande riescono solo ad esprimere l’infinita complessità dell’argomento e delle argomentazioni in gioco: in realtà le risposte non esistono, perché i rapporti tra comunità, popoli o civiltà non trovano composizione nella guerra: “in questo gioco si vince solo se non si gioca” come si afferma in un famoso film.


La guerra, ogni guerra, è sempre una battuta d’arresto nei progressi dello spirito umano (Condorcet); è la sconfitta che la passione infligge all’intelligenza, che l’oscurantismo infligge al ragionamento, che le viscere impongono al pensiero. Spetta alla cultura del dialogo, ancorchè svantaggiata dall’humus che presuppone e dalla lunghezza dei tempi di maturazione che richiede, perseverare, perseverare … e ancora perseverare, finchè, la più bella delle utopie che la mente umana abbia mai potuto concepire, diventi una realtà.


Le nostre speranze nei destini futuri della specie umana possono ridursi a tre punti fondamentali: la distruzione della disuguaglianza tra le nazioni, i progressi dell’eguaglianza in uno stesso popolo, infine, il perfezionamento reale dell’uomo. ….Rispondendo a queste tre domande troveremo nell’esperienza del passato, nell’osservazione dei progressi che le scienze, la civiltà, hanno compiuto finora, nell’analisi del cammino dello spirito umano e dello sviluppo delle sue facoltà, i più fondati motivi per credere che la natura non ha posto alcun termine alle nostre speranze…

..il cammino di questi popoli (* quelli ancora non ancora civili, ndr ), sarà più rapido e sicuro del nostro, perché essi riceveranno da noi ciò che noi siamo stati costretti a scoprire, e poiché per conoscere queste semplici verità, questi metodi sicuri a cui noi non siamo giunti che dopo lunghi errori, sarà a loro sufficiente averne potuto cogliere gli sviluppi e le prove nei nostri discorsi e nei nostri libri…ma quando avendo le necessità naturali avvicinato tutti gli uomini, le nazioni più potenti avranno elevato al rango di loro principi politici l’eguaglianza tra le società e quella tra gli individui, il rispetto per l’indipendenza degli stati deboli e l’umanità per l’ignoranza e la miseria, quando a massime che tendono a comprimere l’impulso delle facoltà umane, succederanno quelle che ne favoriscono l’azione e l’energia, allora, si potrebbe ancora forse temere che restino sul globo spazi inaccessibili ai lumi, o che l’orgoglio del dispotismo possa opporre alla verità barriere a lungo insormontabili?...

Giungerà dunque il momento in cui il sole non illuminerà sulla terra che uomini liberi che non riconoscono altra guida che la ragione ……E questo quadro della specie umana, liberata da ogni vincolo, sottratta dall’impero del caso così come a quello dei nemici del suo progresso, e che avanza con passo fermo e sicuro sulle vie della verità, della virtù e della felicità, offre al filosofo uno spettacolo tale da consolarlo degli errori, dei crimini, delle ingiustizie di cui la terra è ancora macchiata …

1 Ingegenere, dirigente TAV


2 (*) Robert Kagan è autore del libro “Il diritto di fare la guerra. Il potere Americano e la crisi di legittimità“ pubblicato da Mondadori nel 2004. Questo libro segue “Paradiso e potere. America ed Europa nel nuovo ordine mondiale” del 2003 (Mondadori), “Present danger: Crisis and Opportunity in American Foreign and Defense politics” e “A twilight struggle: American Power and Nicaragua 1977-1990”. In qualità di senior associate presso il Carnegie Endowment for International Peace (organizzazione privata no-profit dedita a promuovere la cooperazione tra stati ed un impegno internazionale attivo degli Stati Uniti) e di ex dirigente del Dipartimento di Stato Americano è esperto nelle problematiche internazionali e nei rapporto tra USA ed Europa. Sostenitore della politica di Bush, è considerato il “filosofo” del neoconservatorismo americano. Le citazioni sono tratte dal libro “Il diritto di fare la guerra” e sono riportate da Kagan come sintesi di posizioni espresse storicamente da Grozio, da Kant o da Kissinger, oltre che la Carta delle Nazioni Unite.


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