Editoriale

di Carlo Simeone


E’ difficile comprendere come mai nel lessico adoperato comunemente, sia scomparso qualsiasi termine capace di offrire una raffigurazione concreta di quello che la gente pensa, dei problemi che ha e di ciò che ha bisogno. Termini come “ pubblica opinione”, oppure, come “ pensiero comune ”, non sono più di moda.

E’ interessante a questo proposito, leggere la Storia critica dell’opinione pubblica, di Jurgens Habermas, per cogliere come sia stata determinante nel corso degli ultimi tre secoli, la formazione della pubblica opinione per l’affermazione dello Stato democratico.

La “ voce del popolo “ si è organizzata di volta in volta nel corso degli anni, attraverso diverse forme di aggregazione e di rappresentazione, dando vita ad una evoluzione partecipativa in cui si sono manifestate le attese e i progetti della società.

Guardando la nostra attualità si può essere portati a pensare che tutto ciò non interessi più e che, forse, il tempo sia divenuto il vero tiranno delle nostre attività, richiedendo a tutti di essere sintetici e più rapidi.

Per capire cosa pensa effettivamente la gente, vanno più di moda i sondaggi e le inchieste. Dietro poche domande confezionate ad arte, rispondendo con un si od un no, si ritiene di sapere quale sia l’orientamento comune su un problema qualsiasi. I professionisti delle statistiche su questo non hanno dubbi, disposti come sono ad avvalorare i risultati di tante indagini del proprio lavoro.

Eppure, la questione non può essere sottovalutata e licenziata con poche battute, perché nasconde un retroterra sul quale c’è bisogno di indagare.

Perché i sondaggi ?, da chi sono promossi ?, su quali argomenti vertono e quali fini intendono perseguire ?

Capita di imbatterci raramente su queste domande, che non vengono mai poste, soprattutto se si ritiene importante sapere cosa la gente veramente pensa ed effettivamente desidera.

Oramai, la televisione, i giornali, la radio e internet, e comunque non solo loro, chiedono di dare una risposta mirata su questioni molto specifiche, che quasi sempre sono di attualità. I quesiti più ricorrenti ci portano a considerare che sia molto importante riflettere se quel personaggio veste bene oppure no, se quel politico doveva comportarsi in un modo o nell’altro, o se miss Italia sia carina e fotogenica. In questo modo si crea divisione e si da vita a due fazioni su ogni tema che viene sottoposto a chiunque e non si ricerca la sintesi.

Nella quasi totalità dei casi queste domande fanno parte di un nuovo filone di mercato, sia quando la risposta viene data per telefono, sia quando la trasmissione di turno viene infarcita di continui spot pubblicitari.

Naturalmente, chi propone il quesito risponde ad interessi economici.

Nel caso dei sondaggi, invece, ci troviamo di fronte ad operazioni più sofisticate, preparate con lo scopo di indurre e promuovere operazioni strettamente imparentate con le tecniche della pubblicità ( marketing). Anche in questo caso si tratta di iniziative “ mediate “, che avvengono, cioè, attraverso i media: TV, radio, giornali, oppure, per telefono o tramite la distribuzione di questionari destinati ad un campione prescelto di persone.

I temi oggetto di queste operazioni sono svariati. Si va dal singolo prodotto commerciale, alla preparazione di una trasmissione, sino a sconfinare nel campo della politica.

Tuttavia, tutto quello che si chiede viene studiato a tavolino e persegue solo il fine che si propone chi avvia iniziative di questo genere. Potremmo essere indotti a ritenere, in fin dei conti, che quello che la gente veramente pensa e quello di cui ha bisogno, rimane estraneo alle finalità del sondaggio e delle singole domande di turno.

In alcuni casi, poi, l’esito dell’operazione viene pubblicizzato attraverso le forme che tutti sappiamo, senza che nessuno si sia preoccupato di dirci come siano stati rilevati i dati, chi li ha assemblati e in quale maniera siano stati interpretati.

Si scopre in questo modo, ad esempio, che gli italiani soffrono di insonnia, che più della metà sogna di vincere alla lotteria di capodanno e che, addirittura – come abbiamo appreso qualche mese fa dai giornali – che le donne, se sono intelligenti, evitano il matrimonio.

Siamo quasi ossessionati dall’esito di certi sondaggi, come se provassimo un senso di colpa allorquando rivelano determinate questioni o aspetti non conosciuti della comunità in cui viviamo. In alcuni casi ci sembrano talmente fatti bene ( qualche statistico direbbe che sono altamente significativi) che inducono a orientare lo stesso modo di pensare della gente. Innescano un processo talmente sottile per il quale anche coloro che mai avevano pensato ad un certo problema, si riconoscono nel risultato del sondaggio che hanno sottomano.

Le inchieste e i sondaggi, cioè, fanno opinione, orientano il modo di pensare e, addirittura, i comportamenti.

Eppure, ad un esame attento, essi sono un frutto caratteristico del nostro tempo per tutta una serie di ragioni.

E’ davvero molto difficile, talvolta, soddisfare una domanda che ci viene posta con un si o con un no e racchiudere con una risposta di poche battute, tutto quello che ci passa per la testa.

Quanti libri pubblicati anche di recente, ci dicono quanto sia difficile rappresentare le sensazioni di una persona e quel grande universo di umori che l’animo umano racchiude.

I sondaggi, purtroppo, esprimono un’esigenza che non va oltre la più breve attualità del momento e , poi, alimentano tutta quella corrente di notizie consumate sui giornali nel breve spazio di pochi giorni. Hanno un interesse di cui si fa un uso effimero.

L’esistenza di un essere umano difficilmente si concilia con essi.

Quante volte veniamo a conoscenza di dati che descrivono quanto e dove è diffusa la sofferenza, la povertà, l’incomprensione e l’ingiustizia ?

Si rischia di ridurre con semplicismo una serie di problemi veri del nostro tempo e di mortificare, contemporaneamente la ricchezza che ogni persona porta dentro di se ( compresi i test di ammissione all’università ).

La vittima ignara di queste forme invasive è proprio la persona, l’essere che possiede dentro di se una propria capacità, come individuo cosciente e pensante.

Ecco, nei sondaggi sembra che questo interessi poco, mentre, siamo considerati solo per uno scopo ben preciso.

Lo stesso avviene in quelle trasmissioni dove alcuni ragazzi e i loro genitori vengono rinchiusi all’interno di uno studio televisivo e lasciati litigare, mentre la telecamera li riprende senza alcuna umanità, riproponendoli nelle case degli italiani come puro intrattenimento per occupare il tempo di tanti telespettatori. Anche in quel caso, lo scopo della trasmissione è ben preciso e poco importa se occorre sacrificare le persone e la loro dignità.

Il paradosso è stato raggiunto quando neppure sono stati risparmiati dei portatori di handicap che proprio in virtù del loro stato, costituivano in quel momento un elemento di straordinaria e originale curiosità che facendo aumentare gli ascolti, consentivano di vendere pubblicità.

Abbiamo voluto evocare solo alcuni esempi che mostrano come il nostro mondo abbia dimenticato quanto sia importante la persona. E quando adoperiamo questo termine preferiamo identificarci con ognuno di noi rifiutando il ricorso ad un concetto astratto.

Abbiamo lasciato la persona alla mercé di interessi che nulla hanno a che fare con la sua dignità, la tutela ed il rispetto che vi si deve tributare. In effetti si potrebbero riportare tanti altri casi in cui trionfano la disumanità e l’approssimazione.

La persona è stata dimenticata quando in Italia per prestazioni diagnostiche o per un intervento chirurgico vi sono tempi di attesa superiori ai 365 giorni, così come ha evidenziato il Censis nell’ambito di una sua recente indagine. Si attendono anche 365 giorni per un’ecografia o un ecodoppler cardiaco e 270 per un intervento cardiochirurgico.

La persona non conta quando i disservizi dello Stato, sia che si tratti della pubblica amministrazione o degli stessi servizi pubblici, si riversano sulla vita quotidiana di tanti cittadini: che sono lavoratori, studenti, madri, ammalati, ecc.

La persona, ancora, non viene rispettata se nel nostro Paese i tempi della giustizia sono superiori anche a cinque o sei anni e dove per attendere una sentenza definitiva occorre armarsi di tanta pazienza, oppure, rinunciarci del tutto.

L’elenco, per la verità, potrebbe continuare ancora, per chiederci che senso ha votare quando in base all’ultima riforma elettorale per il rinnovo del Parlamento, si chiede alle persone di apporre una semplice croce sulla scheda elettorale tanto, poi, sono altri a scegliere chi siederà nelle Camere a rappresentarci. Lo stesso vale anche nei riguardi di taluni prodotti che vengono offerti attraverso una pubblicità suadente e accattivante, al di là dell’uso che se ne fa, così come ha scritto molto bene nell’articolo comparso sul numero precedente di Italiaetica, il Prof. Marco Castellet.

Occorre tornare alla persona avendo presente che tutto quello che ci circonda, esiste solo perché è in sua funzione, così come un caro amico sottolineava poco prima dell’estate in un’assemblea di un’importante movimento cattolico. Questo richiamo, tra l’altro, era stato il punto centrale nel discorso di insediamento del semestre della presidenza inglese all’Unione Europea, che Tony Blair aveva rivolto al Parlamento Europeo quando ricordava che la UE era stata costituita, prioritariamente, “ per far star meglio i propri cittadini “.

Torniamo, allora, ai quesiti che abbiamo espresso in apertura per capire se oggi esistono dei sensori capaci di rappresentare e di cogliere cosa pensano ed esprimono le persone.

I mass media – con la televisione in testa – rappresentano un grande luna park, una giostra dei divertimenti, e rispecchiano un mondo che non c’è, dal quale proviene un esempio lontano dall’esistenza concreta delle persone. Le denuncie del piccolo schermo fomentano, non spiegano come si fa e non sembrano voler costruire. Più si grida e si accende la rissa meglio è, così aumentano gli ascolti.

Se non si persegue la sintesi e l’unità anche attraverso la composizione degli opposti, si rinuncia ad esercitare la fondamentale virtù della coesistenza sociale.

Se si riflette con attenzione, sono quasi del tutto scomparsi dalla terminologia corrente quei termini che rappresentavano quasi un denominatore comune della nostra società, per identificare problematiche e questioni di fronte alle quali l’intero paese si sentiva coinvolto e impegnato per cercare soluzioni concrete.

I giovani, la disoccupazione, la famiglia, la piaga della povertà, il mezzogiorno, ecc., quando non sono banalizzati per fare spettacolo ( o una trasmissione di ascolto, oppure, un libro che ha fortuna ), sembrano scomparsi dalla nostra attenzione, mentre, prendono il posto altre categorie che coincidono con elementi di quotidianità di fronte ai quali non si richiede un impegno che esige il coinvolgimento, la partecipazione e la responsabilizzazione.

Sembra che abbiamo rinunciato a sentirci protagonisti del nostro tempo, come soggetti capaci di “ pensare “ e di “ contare “ con il nostro modo di essere e di agire.

Esiste ancora, oggi, una coscienza sociale ? Siamo in presenza di una opinione pubblica capace di esprimere un proprio modo di sentire e di essere ? E’ possibile che ci passano sotto il naso assurdità e crudeltà di ogni genere senza che nessuno si ponga un qualche interrogativo. Anche a questo proposito gli esempi non mancano se si volge lo sguardo verso la disperazione e l’indigenza che caratterizza molte città italiane.

E’ mai possibile che abbiamo ridotto la nostra capacità di espressione solo se arriva il momento di una risposta quando passa il sondaggio di turno ?

La mancanza di riflessione e la capacità di dialogo, hanno suscitato uno stato di indifferenza abbastanza diffuso nella società, sul quale si è innestato un largo complesso di diffidenza. Come se tante persone costrette a rinchiudersi nel proprio piccolo mondo, fossero state esposte alla incomunicabilità e ai tanti guasti del nostro tempo. Tutti i giorni siamo alle prese con la violenza gratuita, la perdita di ogni forma di pudore e di decoro, e la privazione di quei diritti essenziali che contraddistinguono la dignità della persona. Si potrebbe pensare, addirittura, di fronte alla sindrome depressiva che coglie amici e parenti, che di fronte ad un mondo talmente abbrutito, la gente reprime al proprio interno una sensazione di viscerale impotenza che si manifesta con forme autodistruttive. Che sono, poi, le spie di tanti problemi e di un qualcosa che abbiamo imparato a conoscere anche dalle cronache riportate dai giornali.

Si sono smarrite le chiavi di un patrimonio che richiede forme appropriate di partecipazione e di coinvolgimento, forse per il fatto che la persona non interessa più.

Le ideologie degli ultimi due secoli hanno avuto una grave responsabilità a questo riguardo, avendo riportato all’esterno dell’uomo le interazioni politiche e sociali che dovevano ordinarne l’esistenza.

La storia, tuttavia, si è incaricata di smentire le categorie come lo Spirito o lo Stato, che si sono affermate nel secolo passato causando drammi immani. Da sole non potevano essere sufficienti a rappresentare la ricchezza e la complessità dell’uomo e nemmeno avrebbero potuto soggiogarlo definitivamente.

Questo rischio è presente ancora oggi se si afferma un mondo nichilista e senza anima che non ha al centro la persona. Non è possibile garantire una coesistenza sociale capace di evitare l’emarginazione, l’indigenza e lo scontro tra culture diverse, se non si ha a cuore il rispetto dei diritti di ognuno.

Questo problema è ancora più vivo nella politica e non solo in quella italiana.

Aristotele la definiva l’arte sublime, attraverso la quale si può raggiungere la sintesi della convivenza e dell’ordine sociale.

Non è un caso che in molti Paesi del mondo le elezioni non riescono più ad indicare una maggioranza di governo stabile e forte. Chi vince riesce a primeggiare per pochi voti, riportando uno scarto di pochi seggi a suo favore. E’ successo negli Stati uniti d’America, in Gran Bretagna, in Messico, in Grecia, in Germania ed anche in Italia.

Perché accade questo ?

L’elettorato, probabilmente, non coglie più la differenza tra una parte politica e l’altra. Viceversa, la politica è appiattita e propone programmi che si risolvono alla fine, in un qualcosa di poco comprensibile, mentre i problemi restano dove sono.

La politica, insomma, ha perso il suo connotato più peculiare che risiede nella forza del progetto e nel migliorare la condizione del mondo circostante, accettando, invece, di occupare una funzione subalterna rispetto ad altri fattori che finiscono per sacrificare la sacralità della persona.

L’economia viene ritenuta una scienza esatta costituita da dogmi indiscutibili a cui deve allinearsi tutto quello che gli si muove intorno. Ragionando in questo modo si corre il rischio di trovarci di fronte agli eccessi che popolano in modo sorprendente la nostra attualità. Non vorremmo sembrare una massa di ingenui che inseguono l’utopia, ma davvero ci fa molta impressione quando leggiamo le dichiarazioni di Ministri del governo nazionale che parlano di centinaia di migliaia di esuberi nella pubblica amministrazione, così come se si parlasse di superfici da disboscare. Proprio non siamo d’accordo e ci chiediamo dove sia la forza dell’elaborazione politica. Che se viene intesa come lo strumento in grado di dare a tutti un’esistenza accettabile, richiede studio preparazione e passione.

Abbiamo il timore che la politica abbia smesso di pensare e difende una propria autoreferenzialità che per legittimarsi continuamente, insegue talune prassi specifiche derivate dalle tecniche di vendita adoperate sui mercati. L’uso dei mass media, i sondaggi, il presenzialismo, premiano chi appare, danno ragione, cioè, a chi si mostra. E tutto questo, poi, richiede denaro, perché l’utilizzazione dei mass media costa.

Ma il costo non è un problema: perché se i soldi sono spesi bene, sono sempre pochi; se invece sono spesi male, sono sempre troppi.

E’ come se si fosse entrati in un labirinto in cui è veramente difficile trovare la via d’uscita.

Lo sforzo che vogliamo segnalare con la nostra rivista, riprende in pieno il tema della centralità della persona verso cui, crediamo, devono concentrarsi gli sforzi di chiunque opera nella nostra società, indipendentemente dal ruolo che occupa. L’uomo con le proprie capacità, può riuscire a misurare tutto quello che si muove intorno a se, mettendo a frutto le virtù e l’abilità che possiede.


Questo è uno dei motivi, peraltro, che ci porta ad aprire anche questo numero con un articolo che riguarda un’Autorità di mercato che opera in Italia. Non intendiamo con questo proporci in esercizi ideologici di scarso effetto. Al contrario, siamo convinti che un mercato dove vi sia la ricerca continua di regole che lo avvicinano all’uomo e ai suoi bisogni, costituisce un autentico fattore di progresso rispettoso della dignità della persona e al progresso dell’intera società.

Siamo molto onorati di pubblicare l’articolo che ci ha fatto pervenire il Presidente dell’Autorità garante per l’energia elettrica ed il gas, il Prof. Alessandro Ortis, grazie al quale si comprende quanto sia difficile e complessa l’attività che svolge questo organismo, tanto importante per la vita degli italiani. L’autorità in questione, è la prima nel suo genere ad essere stata costituita in Italia per la regolazione di un mercato appartenuto per lungo tempo al monopolista pubblico, sin dalla statalizzazione dell’energia elettrica intervenuta agli inizi degli anni ’60. Inoltre, è particolare la gratitudine che abbiamo per il Presidente Ortis, perché ha voluto soffermarsi nel suo scritto, anche sugli aspetti del mercato che non vanno e che hanno bisogno di ulteriori interventi regolatori. Nell’articolo si scorge quanto sia stato fatto sul fronte dei controlli a tutela dei consumatori, che hanno provocato oltre 100mila indennizzi per circa 7 milioni di euro, e come sia stata migliorata la leggibilità delle bollette. Inoltre, nello scritto si legge pure che l’Autorità riconoscendo “ l’insufficiente potere negoziale di mercato che non consente ad alcune fasce di consumatori/clienti di usufruire adeguatamente dei servizi di gas e di energia elettrica “ ritiene che sia “ necessario mantenere un sistema di tutele per i consumatori più piccoli, comprese le famiglie “.



Anche nell’articolo che segue viene trattato un tema che per molti versi si presenta simile a quello precedente. Il bene collettivo della libertà può essere regolato, anche in maniera restrittiva, se il fine ultimo è proprio quello di tutelarlo nell’ambito di una convivenza sociale più sicura ? E’ questo il concetto a cui si richiama il capo del pool antiterrorismo della Procura della Repubblica di Roma, il dott. Franco Ionta, affrontando un argomento difficile e complesso. Il tema delle libertà individuali in una società evoluta ha bisogno di essere regolato. Se sopraggiungono ulteriori fattori che minano la convivenza sociale, l’ordinamento deve essere pronto a reagire individuando le misure più adeguate. Ed è proprio all’interno di questo dilemma che il dott. Ionta si addentra esponendoci in maniera chiara ed incisiva, quali siano le problematiche emergenti alla luce degli ultimi fatti di terrorismo che si sono verificati nel mondo. Il dott. Ionta, infatti, asserisce che Il problema centrale del contrasto al terrorismo infatti e in specie di quello di matrice internazionale è di coniugare l’uso legittimo della “forza” sia quale attività preventivo/informativa che come azione penale/repressiva, con le libertà individuali protette dai principi costituzionali” . L’articolo propone un filo conduttore coerente verso gli strumenti che l’ordinamento offre nelle democrazie occidentali e anche quando si sono verificati comportamenti deviati, il dott. Ionta sostiene che “ la individuazione dei responsabili e la loro sottoposizione a processi penali, da l’ennesima prova della saldezza delle democrazie rappresentative capaci di reprimere e punire comportamenti deviati. Di fronte anche ai crimini efferati che si sono verificati in teatri di guerra, il capo del pool antiterrorismo ribadendo il richiamo alla costituzione e ai suoi principi , sostiene “ che al crimine lo Stato democratico reagisce con l’apparato giudiziario deputato in via ordinaria al suo contrasto”.



L’articolo che segue riprende il tema precedente soffermandosi sul concetto di guerra, alla luce del significato che soprattutto l’occidente sembra riconoscergli. L’articolo proposto dall’ing. Maria Antonietta Del Boccio, rappresenta in via generale, una critica al grossolano tentativo di interpretazione di taluni fenomeni del nostro tempo così come ci vengono mediati e proposti dai mezzi di comunicazione. Si lascia il termine inalterato, mentre viene artatamente mutato il contenuto semantico. E’ indubbio come di recente la comprensione del concetto di guerra sia stato fatto passare attraverso le identificazioni più suggestive e discutibili. La guerra chirurgica, quella preventiva, la guerra moralmente accettabile, insieme ad altre espressioni ancora, sono definizioni analiticamente scrutate nell’articolo della Del Boccio che fa rilevare come la nostra società intenda affrancarsi, con tali affermazioni, dalla sensazione di violenza insita nell’azione belligerante. L’articolo ad una prima lettura, può apparire come una critica rivolta all’ipocrisia di certe posizioni; eppure, esso merita una riflessione più approfondita che certamente farà pensare.



E, non a caso uno dei principi che sottende l’etica, afferma che non bisogna fare agli altri quello che non si desidera per se stessi.

Sulla scorta di questo significato che mette ciascuno a confronto con la propria coscienza, siamo molto lieti di pubblicare un articolo del Professor Michel Ryan, docente di etica dell’Università Pontificia Regina Apostolorum. Si tratta di uno scritto molto profondo che riprende una analisi approfondita e circostanziata sul significato che si intende attribuire all’ etica. Come si diceva in precedenza, la nostra società corre il rischio di restare in superficie quando i temi sui quali ci confrontiamo, richiedono la capacità di mettersi in gioco. Ed è difficile sdoppiare la propria coscienza quando il comportamento di ciascuno segue una volontà posta al di fuori della responsabilità individuale. L’articolo del Prof. M. Ryan, và letto in questa prospettiva, al di là di ogni professione religiosa. L’etica, come si dice nell’articolo, richiama la pratica della virtù della bontà, innanzitutto. Non può esistere sotto questa luce, un’etica semplice e a buon mercato, che prescinde dalla persona e dai suoi atti.

Gli articoli che seguono, si muovono sullo stesso filo conduttore anche se analizzano in un contesto diverso, più settoriale, taluni problemi del nostro tempo.



La professoressa Valeria Sodano trattando il tema del comparto agroalimentare nell’era della globalizzazione, mette in risalto i rischi di un processo capace di compromettere la tradizione e l’intero assetto di un pezzo di Paese, fondamentale per l’economia e la cultura del nostro Paese.

La Sodano afferma che i pericoli riguardano la produzione di quei beni ( pubblici ) indispensabili per uno sviluppo equo e sostenibile di un paese avanzato e la cui produzione è strettamente legata a quella alimentare. La sicurezza alimentare, la difesa dell’ambiente naturale, il mantenimento del patrimonio culturale legato alla gastronomia ed agli stili alimentari tradizionali e la promozione di modelli alimentari coerenti con una corretta politica sanitaria di prevenzione, costituiscono dei valori difficilmente sostituibili. L’alimentazione rappresenta l’energia primordiale che consente all’uomo di compiere ogni attività. La prof. Sodano ci spiega come la tradizione alimentare in Italia, si sia sforzata di abbinare a questo concetto il valore del gusto e del sapore nelle cose che mangiamo. Pertanto, come si sostiene nell’articolo, è necessario che si predispongano politiche adeguate per conservare un valore inestimabile della storia, della tradizione e della cultura del nostro Paese.



Questo terzo numero di Italiaetica si chiude con un contributo che il presidente Mario D’Antino, tanto cortesemente, ha voluto rilasciarci sottoforma di articolo, per riprendere l’appello che abbiamo lanciato nel numero precedente quando si è fatto riferimento al valore della vita nella nostra società. A questo riguardo, le morti sul lavoro e le tragedie causate dagli incidenti stradali, meritano una riflessione approfondita e professionale. Non a caso, come ha fatto notare di recente l’ACI, in Italia si guida male perché gli incidenti più frequenti sono dovuti al mancato rispetto della segnaletica e alla guida distratta . Difatti, il maggior numero di decessi per incidenti sono dovuti allo scontro frontale-laterale, al tamponamento e all’uscita di strada. Il prof. D’antino fa presente che quando le regole giuridiche falliscono o non sono più adeguate, o non agiscono più da deterrente, l’etica della mobilità deve proporre l’individuazione di nuovi criteri normativi e comportamentali nei confronti di una mobilità consapevole e responsabile.

A suo avviso dovranno essere indicate soluzioni opportune sotto il profilo tecnologico ed economicamente sostenibili, che abbiano come priorità la sicurezza, il rispetto dell’ambiente, i bisogni insopprimibili delle fasce sociali e, in particolare, di quelle deboli.

Ciò, tuttavia, non basta. Secondo il pres. D’Antino è necessario aumentare gli sforzi facendoli convergere verso nuovi modelli per convincere la collettività su un piano etico, prima che giuridico, affinché il codice della strada e le altre norme comportamentali, non siano soltanto un monumento giuridico avulso dalla realtà, e quindi qualcosa che si può trasgredire se non è presente il vigile o il poliziotto, ma esso deve essere il punto di arrivo di esperienze e valutazioni che doverosamente si traducono in comandi e divieti da rispettare per una guida sicura per sé e per gli altri.



Anche questo numero si chiude come quello che lo ha preceduto, con un articolo che riguarda l’ambito familiare. Nel senso che richiama la fondamentale funzione che i valori hanno nell’educazione dei giovani, soprattutto, quando la famiglia svolge un ruolo proattivo. Ringraziamo per questo, il prof. Tonino Cantelmi che ci ha voluto rappresentare una drammatica realtà in cui si rifugia la gioventù più debole e fragile, descrivendo nel suo articolo il mondo dell’occultismo e del satanismo. Chi vorrà conoscere meglio il fenomeno descritto dal prof. Cantelmi, può farlo leggendo un suo recente libro sulla materia per approfondire uno di quei fenomeni sui quali si annida il malaffare che approfitta dell’ingenuità di tanti giovani. Ancora una volta Tonino Cantelmi sottolinea quanto sia importante l’ambiente familiare e quanto sia altrettanto determinante la difesa e la valorizzazione della famiglia che al di là di quanto si possa immaginare, costituisce l’incubatrice educativa e formativa dei nostri figli. Bisogna sostenerla di fronte a un certo modo disinvolto di fare TV, nei riguardi di taluni modelli che propongono i media, di tante sirene che internet propina e, soprattutto, da una società distratta che spesso preferisce guardare altrove.


L’Italia conserva un enorme patrimonio culturale fatto di saperi e di competenze, di cui gli esempi e le tante prove tangibili sono a portata di mano. Forse, non compaiono come vorremmo e nemmeno sono pubblicizzate come meriterebbero.

Italiaetica intende collaborare e offrire il proprio contributo insieme a chi è convinto nella loro forza.

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