La donna, come fattore di civiltà e progresso nelle società

di Anna Bono1


All’origine della sottomissione delle donne


I mezzi di comunicazione e i flussi migratori rendono sempre più evidente una realtà che è stata a lungo pressoché ignorata: lo stato di sottomissione, marginalità e dipendenza delle donne che vivono nei paesi in via di sviluppo o che ne sono originarie, le discriminazioni, le limitazioni della libertà e le violenze fisiche e morali che subiscono, praticamente senza scampo.

Nel cercare di capire che cosa sia all’origine di così tante ingiustizie si compiono di frequente due errori fondamentali. Il primo è non rendersi conto che nei paesi in via di sviluppo gran parte degli atti violenti e discriminanti contro le donne sono istituzionalizzati, vale a dire azioni sancite, riconosciute e stabilmente praticate; non soltanto ammesse e tollerate, ma approvate e spesso prescritte: dunque, meritevoli di lode, esemplari. A compierle, in genere entro le mura domestiche, sono i familiari delle vittime che di rado vengono perseguiti e quasi mai sanzionati.

Il secondo errore è ritenere questi comportamenti tipici della religione e della cultura islamica. Si tratta di un errore comprensibile perché è nelle comunità musulmane che si rilevano con maggiore frequenza e soprattutto è in esse che si registrano gli episodi più numerosi e drammatici di repressione di ogni forma di ribellione da parte delle donne. In realtà, però, per lo più la loro origine si colloca in tempi antecedenti alla nascita dell’islam e la loro diffusione interessa vaste regioni del mondo non islamiche.

Per capirne funzioni e necessità occorre risalire ai sistemi economici delle società che le hanno adottate: le società cosiddette tradizionali, arcaiche o tribali. A renderle attualmente rilevanti è il fatto che una percentuale variabile, ma sempre elevata, degli abitanti dei paesi in via di sviluppo ancora vive in comunità del tutto o in parte tradizionali e che esse continuano a esercitare una notevole influenza in contesti socioeconomici non tradizionali, benché non vi svolgano più le funzioni originarie.

Nell’esposizione che segue si farà riferimento essenzialmente al continente africano sia perché l’Africa contende agli altri continenti il primato delle sofferenze inflitte alle donne, e in termini relativi quasi sempre lo detiene, sia perché le comunità tribali africane sono modelli esemplari delle realtà sociali in oggetto.



I. Le economie di sussistenza


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Nella loro varietà, le società tradizionali africane hanno in comune il fatto di fondarsi su economie di sussistenza – definite anche, a seconda delle caratteristiche che si vogliono evidenziare, ‘arcaiche’ e di ‘rapina’2 – che in Africa si presentano nella forma nota come ‘modo di produzione di lignaggio’, dal nome dell’unità di discendenza africana tradizionale.

Sono infatti l’organizzazione, la struttura e i rapporti di parentela all’interno del lignaggio e di ogni suo segmento familiare a definire la divisione, l’organizzazione e i rapporti di lavoro nelle comunità tribali. Per questo talvolta le economie di sussistenza africane vengono dette degli ‘affetti’.3

Due caratteristiche dei lignaggi africani consentono di individuare un primo, decisivo fattore di emarginazione e discriminazione femminile. Al contrario del sistema di parentela adottato nei paesi occidentali, che si dice cognatizio e compone i gruppi familiari considerando i discendenti di una persona sia attraverso la linea maschile sia attraverso quella femminile, il sistema di parentela africano è unilineare: ogni lignaggio comprende le persone che discendono da un unico antenato fondatore in linea paterna oppure, meno di frequente, materna. Nei lignaggi patrilineari appartenenza, status, titoli, beni, terre e diritti nell’ambito della comunità tribale si tramandano da una generazione all’altra di padre in figlio; in quelli matrilineari passano dal maggiore dei fratelli di una donna ai figli di quest’ultima, quindi da uno zio materno ai suoi nipoti.4

Ciò che importa ai fini della condizione femminile – ed è la seconda caratteristica – è che, in entrambi i casi, a trasmettere e a ricevere sono gli uomini, tutto passa da una generazione di maschi a un’altra e, anche nel sistema di discendenza matrilineare, le femmine fanno unicamente da tramite tra due generazioni di maschi. In più non soltanto non ereditano in quanto figlie, ma nemmeno in quanto mogli, sorelle e madri. Fanno eccezione le etnie che hanno adottato la shari’a, la legge coranica, perché l’islam, pur seguendo il sistema unilineare patrilineare, consente alle donne di ereditare, sebbene in misura e forme diverse da quelle previste per gli uomini.

Queste leggi di discendenza determinano la supremazia sociale dei maschi dai quali dipende l’esistenza di ogni lignaggio perché se nell’ultima generazione mancassero i maschi quella precedente non saprebbe a chi trasmettere proprietà e status che andrebbero dispersi e, con essi, i suoi componenti.


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Tornando in generale alle economie arcaiche, il motivo per cui vengono dette ‘di sussistenza’ è la loro bassissima produttività dovuta innanzi tutto alle tecnologie elementari di cui si avvalgono che non consentono di valorizzare il lavoro umano e di attenuare gli effetti negativi di fenomeni climatici come l’andamento irregolare delle precipitazioni atmosferiche che, siano esse scarse, intermittenti, troppo abbondanti, anticipate o tardive, danneggiano sempre raccolti e bestiame. In Africa quasi ovunque mancano persino i più semplici sistemi di controllo delle acque, l’uso di fertilizzanti di origine animale, i mezzi di trasporto a ruota, l’aratro a trazione animale. Nelle attività agricole l’apporto tecnologico si riduce in sostanza a pochi attrezzi rudimentali: una zappa dal manico corto, un bastone da scavo, uno lungo strumento tagliente.

Sempre in Africa, la bassa capacità produttiva deriva poi da una divisione del lavoro che, nell’attribuire compiti e mansioni, tende a non considerare le attitudini individuali dovendo, come si è detto, rispettare le gerarchie e i ruoli indicati dai rapporti di parentela, e per di più assegna ben poche attività produttive ai maschi adulti. Nelle società tradizionali anche il lavoro agricolo e la cura degli animali domestici, oltre alle attività casalinghe e di assistenza, sono infatti istituzionalmente affidati in gran parte a donne e bambini. Infine alla scarsa produttività delle economie di sussistenza africane contribuisce un insieme di atteggiamenti responsabili della tenace resistenza africana al cambiamento – derivanti dall’assenza dell’idea di progresso, dal timore di offendere gli antenati e di suscitarne la collera adottando innovazioni tecnologiche o di qualsiasi altro genere e dalla credenza nella stregoneria – che scoraggiano e anzi puniscono intraprendenza, inventiva, sperimentazione e creatività e concorrono al persistere di un modo di produzione così inefficace.


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Chi pratica economie di sussistenza dipende quindi dalle risorse esistenti in natura – la terra, prima di tutto, i metalli... – disponibili in quantità globale fissa e irriproducibili. Per disporne in quantità sufficienti, ogni comunità deve essere in grado di difendere quelle acquisite e di impedire alle comunità rivali di sottrargliele; a sua volta insidia quelle altrui cercando di appropriarsene per aumentare le proprie probabilità di sopravvivenza. La guerra di conquista, per il controllo di terre coltivabili, sorgenti e altri punti d’acqua, pascoli, acque pescose, è una necessità costante, un fattore economico strutturale.

La ridotta, incerta e irregolare produzione di beni essenziali rende sempre utile, e in situazioni critiche indispensabile, impadronirsi di quelli prodotti da altri. La guerra a scopo di saccheggio, oltre che di conquista, è dunque un fattore anch’esso strutturale, vale a dire non marginale, non occasionale, delle economie di sussistenza che per questo motivo vengono a volte chiamate di ‘rapina’. Ogni comunità per integrare le proprie risorse cerca di razziare raccolti, bestiame, attrezzi e suppellettili di ogni sorta: una pelle di pecora o una zappa valgono la pena di un agguato, qualche cesto di mais o alcuni capi di bestiame meritano di incendiare o distruggere un villaggio, uccidendone e disperdendone gli abitanti, e di rischiare la vita per rubarli.

Questo spiega la conflittualità endemica che pervade la storia africana e che, secondo lo storico italiano dell’Africa Claudio Moffa, lega la cultura tribale a una logica della “violenza bruta” tanto da poter ipotizzare che “la guerra con la sua potenzialità distruttrice e forse anche genocida” sia “il segno distintivo stesso della comunità (africana)”5: segno distintivo che permane nel cosiddetto settore informale, quell’insieme di attività per lo più irregolari che oggi nei centri urbani sostituiscono le economie tradizionali – caccia/raccolta, pastorizia e agricoltura - occupando fino al 90% della popolazione.

Nei loro territori tribali agricoltori, pastori e cacciatori ancora si disputano come in passato pozzi, sorgenti e terre, saccheggiano raccolti, bestiame e beni altrui. Gli abitanti dei centri urbani lottano invece per il controllo di un quartiere, di una strada, di un genere di commercio, di un tipo di lavoro o di attività illegale e il saccheggio prende di mira abitazioni e negozi ogni volta che se ne presenta l'opportunità.


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Per sopravvivere, e talvolta prosperare, malgrado la scarsa produttività e la limitatezza delle risorse naturali, le comunità che dipendono da economie di sussistenza devono assicurarsi la più ampia disponibilità della principale risorsa riproducibile: la forza lavoro umana.

Il destino di ogni lignaggio e di ogni suo segmento dipende dalla loro capacità di non farsi mancare mai braccia giovani e sane, adatte a lavorare e a combattere. Per riuscirci devono essere in grado di avere molti figli, di generarne in continuazione: la mortalità infantile è infatti altissima, la durata della vita è molto breve, tutti, a causa delle generali condizioni di lavoro, abitative e ambientali, sono esposti a un elevato rischio di infortuni e malattie debilitanti e invalidanti, particolarmente temibili dal momento che tutte le attività produttive richiedono buona forma fisica. Infine sono numerosi i casi di mortalità materna e quelli di sterilità femminile e maschile, dovuti in gran parte a infezioni, lesioni provocate da parti precoci, interventi di mutilazione genitale femminile e di circoncisione maschile eseguiti male.

Per questo motivo un altro fattore produttivo strutturale delle economie di sussistenza è la schiavitù. Ogni comunità si procura ulteriori risorse umane catturando bambini e giovani di entrambi i sessi da utilizzare come schiavi da lavoro e da riproduzione. Le razzie servono anche a questo.



II. Le istituzioni necessarie. L’assoggettamento


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Le società tribali africane dovrebbero per ciò conferire potere alle donne, in ragione della loro insostituibile e tanto preziosa funzione procreativa, ma invece non è così.

Alle economie di sussistenza, infatti, corrispondono sistemi sociali autoritari, gerontocratici e patriarcali. Ne consegue l’assoggettamento delle donne e dei giovani maschi agli ‘anziani’, vale a dire ai maschi adulti capifamiglia, che ne amministrano le funzioni produttive e riproduttive esercitando su di loro un controllo rigoroso e idealmente assoluto.6

Per regolare le funzioni riproduttive, ogni comunità impone norme precise all’attività sessuale dei propri componenti, impedendo loro di disporne a propria discrezione, e non consente a nessuno di decidere liberamente con chi e quando sposarsi, ovvero costituire un nuovo segmento di lignaggio.

In certe etnie africane i capifamiglia devono imporre ai propri figli i coniugi che ritengono convenienti senza tener conto della loro volontà: questo tipo di matrimonio si dice forzato o imposto; in altre il consenso dei figli è richiesto, almeno formalmente, ma a proporre l'unione sono i loro genitori: si tratta allora di matrimonio combinato; altre etnie ammettono che i diretti interessati o almeno i maschi possano prendere l’iniziativa, ma le nozze non devono comunque essere celebrate senza il consenso dei genitori che hanno facoltà di negarlo con decisione indiscutibile e impedire l'unione. In tutti i casi nelle società tradizionali sono le famiglie, che a loro volta rappresentano gli interessi delle rispettive comunità di lignaggio, a discutere i termini dei contratti matrimoniali. Se non raggiungono un accordo, l'unione non è ammessa.

A orientare le scelte coniugali delle famiglie sono diversi fattori e naturalmente il calcolo delle alleanze tra segmenti di lignaggi, lignaggi e clan è uno dei più importanti. Tra le regole matrimoniali più diffuse figura il divieto di unioni tra cugini paralleli, mentre sono ben viste quelle tra cugini incrociati. Il motivo è che i cugini paralleli sono considerati fratelli (e di solito hanno con gli zii e le zie e con i loro coniugi un rapporto a tutti gli effetti filiale) e quindi la loro unione sarebbe incestuosa. Un’altra regola pressoché universale è la proibizione, benché non sempre si tratti di un divieto assoluto, di sposare persone di altre tribù. Soprattutto sono rare e disapprovate le unioni tra membri di tribù che praticano economie diverse: ad esempio, tra agricoltori e pastori.

Anche il momento del matrimonio non è libero. Spesso è stabilito che i figli di una famiglia contraggano le prime nozze in ordine di nascita e, dove esiste l’istituzione delle ‘classi d’età’ maschili che dividono la vita degli uomini in periodi a ciascuno dei quali corrispondono status e ruoli diversi, i giovani maschi sono autorizzati a sposarsi solo dopo essere entrati nello status degli adulti coniugati, ma allora il matrimonio diventa un obbligo ineludibile.

Neanche il luogo in cui vivere può essere scelto dai coniugi. Gran parte delle società africane impongono la residenza patrilocale: ogni nuovo capofamiglia deve abitare insieme alle mogli nella casa o nel villaggio paterni o comunque entro i confini del territorio controllato dal lignaggio paterno. Più rare sono la residenza matrilocale, in base alla quale la coppia va a vivere presso i genitori della sposa, e quella avunculocale, che pone la residenza presso la casa dello zio materno del marito.

Il vincolo residenziale si spiega con il fatto ovvio che una comunità vuole usufruire delle risorse che ogni nuova unità familiare produce: devono essere a disposizione degli anziani e non lo sarebbero se i segmenti di lignaggio si disperdessero su territori lontani. Peraltro le etnie, e al loro interno i lignaggi, controllano più o meno stabilmente dei territori – dai confini variabili, di continuo ridefiniti – che ogni comunità suddivide e assegna ai propri componenti affinché possano coltivare, raccogliere legna, attingere acqua, far pascolare il bestiame, pescare e cacciare. Vivere al di fuori delle terre occupate dalla propria tribù è impensabile perché vuol dire scontrarsi con degli estranei pronti a respingere, uccidere o ridurre in schiavitù gli intrusi; e anche oltre i confini del proprio lignaggio si è privi di mezzi di sussistenza a meno di volerli sottrarre ad altri lignaggi.


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Il matrimonio combinato e imposto e le istituzioni ad esso complementari privano maschi e femmine della facoltà di decidere quando e con chi sposarsi e dove abitare. Tre altre importanti istituzioni hanno il compito di organizzare le funzioni produttive e riproduttive delle donne.

La prima è la poliginia che consente, e in certe circostanze impone, a un uomo di avere più mogli contemporaneamente. Presente in tutto il continente africano, permette di moltiplicare la forza lavoro di una famiglia in pochi anni e perciò, in condizioni ambientali favorevoli, di assicurarle risorse sufficienti. Le regole poliginiche variano da etnia a etnia, ma spesso la prima moglie gode di uno status superiore a quello delle altre. Di norma, però, la prolificità è fondamentale nel determinare il potere contrattuale e la posizione di ogni moglie in una famiglia poliginica dal momento che una donna sterile o che non riesce a generare figli maschi è giudicata una moglie pressoché inutile.

Va osservato poi che questa istituzione compensa i condizionamenti imposti alla vita sessuale dei maschi. Infatti il matrimonio introduce l’uomo allo status di capofamiglia e quindi di anziano. Questo significa che, nel volgere di pochi anni, toccherà a lui decidere quando e con chi far sposare i propri figli e a quel punto potrà disporre di se stesso. Le seconde nozze di un uomo e quelle successive sono sempre meno condizionate dalla generazione precedente alla sua a misura che cresce di status e diventa lui il principale e più autorevole interprete della volontà familiare.

Non è così per la donna che in genere neppure in seconde nozze è autorizzata a scegliere e lo è tanto meno quando deve sottostare a un’istituzione detta ‘prezzo della sposa’ che costituisce il fulcro del contratto matrimoniale per centinaia di tribù africane. Dove è praticata, l’uomo che intende prendere moglie deve corrispondere ai parenti della futura sposa, a risarcimento di quanto hanno speso per allevarla e a compenso della risorsa produttiva e riproduttiva che cedono, un certo ammontare di beni o denaro, tradizionalmente forniti dalla sua famiglia. Le trattative per stabilirne entità e modalità di consegna, affidate ai genitori degli sposi, sono decisive ai fini della stipulazione del contratto nuziale: anche quando i genitori possono concedere la scelta coniugale ai figli, il matrimonio non si conclude se le famiglie non raggiungono un’intesa a questo riguardo.

La completa consegna dell’importo concordato (che può richiedere anni quando si tratta di cifre o beni ingenti), attribuisce alla famiglia che lo ha corrisposto il diritto di usufruire delle funzioni produttive e riproduttive della donna per la quale ha pagato e quindi la proprietà dei figli da lei generati dopo la stipulazione del contratto. Questi diritti permangono anche dopo la morte del marito. Trascorso il periodo di lutto prescritto, le vedove sono obbligate a sposare un fratello o un cugino parallelo del defunto, avendo talvolta la facoltà di scegliere con chi unirsi.

Il prezzo della sposa può consentire inoltre di non interrompere nessuna linea di discendenza. Molte etnie prevedono che, se un uomo muore prima di aver generato dei figli maschi, il primo nato dalla nuova unione venga considerato discendente del defunto: l’istituzione si chiama levirato.

L’eventuale scioglimento del matrimonio – qualunque ne sia la causa – comporta il dovere di restituire il prezzo della sposa alla famiglia del marito. Ma un buon padre di famiglia si suppone che impieghi i beni acquisiti maritando le figlie per procurare delle mogli ai propri figli maschi o per altre necessità familiari. Per questo non si vede mai di buon occhio il ritorno di una figlia maritata. Può trattarsi di ripudio – la decisione unilaterale di un uomo di sciogliere il proprio legame coniugale – e allora tutti le rinfacciano di non essere stata una buona moglie. Ma anche nel caso sia lei ad andarsene, per seri e condivisibili motivi, è difficile che trovi comprensione presso i propri congiunti. Interesse della sua famiglia è cercare di restituirla al marito per non dover pagare.

Quando la separazione diventa definitiva, il padre spesso si affretta a trovare un altro marito per la figlia affinché sia lui a rimborsare il prezzo della sposa. Questo però di solito accade con facilità presso le etnie che non danno molta importanza alla verginità femminile, altrimenti una donna che è già stata sposata si valuta di meno e quindi l’ammontare che il secondo marito è disposto a pagare è inferiore a quello corrisposto dal marito precedente. La peggiore delle eventualità si verifica se una donna viene ripudiata perché è sterile: nessuno sarà disposto a pagare per lei – a meno che si tratti, ad esempio, di un uomo in età, che ha già avuto dei figli e che cerca svago sessuale oppure un aiuto per le proprie mogli invecchiate – e tutti la giudicheranno un peso e una disgrazia.

La terza istituzione considerata, presente in centinaia di tribù in circa 28 stati africani, è un insieme di interventi noti come mutilazioni genitali femminili. Due sono quelli più comuni in Africa: l’escissione, che consiste nell’asportazione del clitoride e di altre parti dell’organo genitale femminile, e l’infibulazione, sempre associata all’escissione, con la quale si sigilla quasi del tutto l’apparato genitale lasciando soltanto un piccolo orifizio per il deflusso dei liquidi organici, operazione che va ripetuta subito dopo ogni parto. L’età alla quale si effettuano gli interventi va da pochi giorni dopo la nascita al momento del matrimonio e varia a seconda delle etnie, così come il tipo di mutilazione inflitta. Si calcola che nel mondo esistano circa 130 milioni di donne mutilate e che ogni anno non meno di due milioni di bambine siano sottoposte a escissione o infibulazione: la maggior parte sono africane, le altre quasi tutte asiatiche.

Per giustificare l’esistenza di questa istituzione si forniscono diverse motivazioni: di carattere igienico, estetico, religioso, sociale… Per molti, semplicemente, le mutilazioni genitali sono una tradizione che, in quanto tale, va rispettata. Le popolazioni islamiche che le hanno adottate sono convinte che siano volontà di Dio, ignorando che in realtà l’islam, pur avendo l’enorme responsabilità di assecondarle da secoli, e di averle diffuse ed esportate (ad esempio, in Indonesia), non le ha inventate e non le impone. Molti genitori, benché riluttanti a eseguirle, spiegano che, custodendo così la verginità delle figlie, garantiscono loro la possibilità di sposarsi – se non venissero operate non troverebbero marito – tengono alto l’onore della famiglia e possono quindi esigere un prezzo della sposa elevato.

Al di là delle giustificazioni fornite da chi le esegue, la funzione delle mutilazioni genitali femminili, così come del prezzo della sposa, è far sì che le comunità possano amministrare le funzioni riproduttive delle loro donne controllandone le attività sessuali. Escissione e infibulazione servono a rendere molto improbabile che abbiano rapporti sessuali non ammessi e quindi contribuiscono ad assicurare che generino figli soltanto per gli uomini e per le famiglie a cui apparterranno dopo il matrimonio.

Quest'ultima istituzione illustra più di qualsiasi altra l’importanza che le economie di sussistenza attribuiscono al controllo delle funzioni procreative: il suo costo in termini di perdite umane e di permanenti danni fisici e psicologici invalidanti per le superstiti è infatti elevatissimo. Tuttora la maggior parte delle bambine non sono operate in strutture sanitarie e gli interventi sono effettuati senza anestesia, mediante strumenti non sterili e inadeguati – ad esempio, coltelli, rasoi, pezzi di vetro, aghi, spine – da persone, per lo più donne, che non hanno una preparazione medica: per questo sono numerosi i decessi dovuti a emorragie e infezioni e sono frequenti le slogature e le fratture degli arti superiori e inferiori perché durante l’operazione paura e dolore inducono le bambine a divincolarsi con violenza dalla stretta delle donne che le immobilizzano. Per le stesse ragioni le lesioni inflitte possono essere più estese ancora di quelle prescritte e interessare altri organi.

Spesso, poi, le donne mutilate sono soggette per il resto della loro esistenza a cistiti, indurimento delle parti lese, infezioni ricorrenti dovute al ristagno dei liquidi organici che non riescono a defluire e altre patologie debilitanti che possono rendere i rapporti sessuali dolorosissimi, oltre a favorire l’insorgere di complicazioni durante la gravidanza e il parto e a provocare infertilità.



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È opportuno ribadire, per concludere, che preoccupazione primaria delle economie di sussistenza è il controllo del potenziale procreativo dei suoi componenti, non quello della sessualità in se stessa. Le donne non devono generare se non per gli uomini ai quali sono destinate, ma le prescrizioni relative alla sessualità femminile variano e non sempre si pone la verginità come valore. È tale, evidentemente, dove si eseguono le mutilazioni genitali femminili. Ma gli Acewa dello Zambia, per esempio, forzano ogni bambina, dopo la comparsa delle mestruazioni, ad avere rapporti sessuali con il primo uomo non strettamente imparentato disponibile perché credono che la fertilità vada subito attivata, altrimenti la bambina diventerà sterile.7 Però neanche le donne Acewa possono sposare chi desiderano così come non possono evitare quel primo rapporto sessuale.



III. Diritti universali: una rivoluzione antropologica


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Dal bisogno di controllare le funzioni procreative caratteristico delle economie di sussistenza hanno origine le maggiori istituzioni intese a negare alle donne libertà e autodeterminazione. Nessuna di quelle descritte – e nessuna delle altre non prese qui in esame: il velo imposto, la segregazione domestica (harem), il sororato, il matrimonio temporaneo e quello infantile, la dote, l’omicidio d’onore, il dovere d’obbedienza e sottomissione assoluta della moglie alla volontà del marito, il diritto/dovere del marito di infliggere punizioni fisiche e d’altra natura alla moglie... – è tale da consentirci di accettarle. A renderle inammissibili ai nostri occhi è una caratteristica della civiltà occidentale, quella stessa che invalida il presupposto femminista dell’esistenza di uno ‘specifico femminile’ che accomunerebbe le donne di tutti i tempi e di ogni paese e autorizzerebbe a parlare di “condizione della donna” al di là di qualsiasi differenza culturale, sociale, economica e religiosa.

Si tratta del concetto di ‘persona’, la cui formulazione si deve all’Occidente, e dal quale deriva la convinzione che ogni essere umano, anche di sesso femminile, sia detentore di diritti inerenti alla condizione umana, quindi inalienabili e universali: primi fra tutti, il diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della propria persona, come si legge nella ‘Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo’, approvata dell’Assemblea Generale dell’ONU il 10 dicembre del 1948, che all’articolo 1 proclama: “tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti”.

L’affermazione di questo principio ha prodotto una rivoluzione antropologica di cui spesso, per la sua stessa efficacia nel modificare il significato attribuito all’esistenza e trasformare le generali condizioni di vita, non si apprezzano abbastanza gli effetti.

Ha scritto Murray N. Rothbard, uno dei più noti filosofi libertari:


La gloria della razza umana è l’unicità di ogni individuo, il fatto che ogni persona, quantunque simile a ciascun’altra per molti aspetti, possiede una propria personalità ben individuata. È il fatto dell’unicità di ogni persona, il fatto che non esistono due persone pienamente intercambiabili che rende ogni uomo insostituibile e che rende importante se egli vive o muore, se è felice o se è oppresso. E, infine, è il fatto che queste personalità uniche hanno bisogno della libertà per il loro pieno sviluppo che costituisce uno dei maggiori argomenti a favore di una società libera”.8


Per la maggior parte di coloro che si sono formati nella tradizione di pensiero occidentale l’individualità è un valore che va difeso e rispettato nell’interesse del singolo e della società e la libertà è un bisogno fondamentale.

Diversi fattori hanno contribuito alla realizzazione di questa rivoluzione antropologica: due hanno svolto un ruolo determinante nel produrla.



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Il primo fattore è l’evoluzione dalle economie di sussistenza, tipiche delle società arcaiche nelle quali la funzione economica centrale della donna coincide con il suo asservimento, alle economie produttive moderne.

Come si è visto, la maggior parte delle società preindustriali dipendono essenzialmente dai limitati beni esistenti in natura perché i modi di produzione tradizionali, fondati sui rapporti di parentela e dotati di tecnologie rudimentali rendono il lavoro poco produttivo. Per inciso, questo spiega l’origine della condanna morale della ricchezza, tuttora diffusa in certi ambienti sociali e culturali, un tempo giustificata dal fatto che in effetti nelle economie arcaiche si potevano accumulare grandi ricchezze quasi solo sottraendole agli altri, quindi impoverendoli, e non, invece, moltiplicandole.

In tali contesti vita e morte, abbondanza e carestia dipendono, oltre che dagli andamenti climatici ai quali il bassissimo livello tecnologico non consente di rimediare, dalla disponibilità di molte braccia giovani, in grado di lavorare, razziare, conquistare e far fronte alle aggressioni delle comunità concorrenti. Per garantirsi sempre nuove braccia, ogni gruppo umano ha bisogno di donne. La società si organizza quindi in unità patriarcali che le assoggettano per disporre delle loro facoltà procreative e amministrarle nell’interesse della comunità.

L’imperativo di organizzare e controllare la procreazione viene meno con l’avvento delle economie di produzione e soprattutto del capitalismo che aumenta straordinariamente la produttività del lavoro: disporre di tante donne e dei loro figli non è più il solo modo per una comunità di assicurarsi le risorse necessarie.

Tre rivoluzioni – scientifica, tecnologica, industriale – hanno fornito al modo di produzione capitalistico le condizioni e gli strumenti per affermarsi e due secoli or sono, tra il 1815 e il 1830, in Europa e nell'America Settentrionale le nuove, immense risorse disponibili hanno incominciato a essere usate in modo costruttivo.9 Così si è sviluppata una civiltà – l’Occidente – che è capace di progressi scientifici, tecnologici e produttivi incomparabilmente superiori a quelli di ogni altra società e che – unica nella storia umana – considera giusto solo un mondo in cui tutti abbiano pari opportunità di contribuire al progresso materiale, intellettuale e morale dell’umanità e di goderne i frutti.


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Il secondo evento della storia che ha trasformato in modo radicale la condizione umana risale a molti secoli prima ed è il cristianesimo: ecco perché, nell’ottima sintesi fornita da don Luigi Giussani, il fondatore del movimento cattolico ‘Comunione e Liberazione’.


La cultura occidentale possiede dei valori tali per cui si è imposta come cultura e operativamente, socialmente, a tutto il mondo (…) tutti questi valori la civiltà occidentale li ha ereditati dal cristianesimo: il valore della persona, assolutamente inconcepibile in tutta la letteratura del mondo; (…) il valore del lavoro, che in tutta la cultura mondiale, in quella antica ma anche per Engels e Marx, è concepito come schiavitù, è assimilato a una schiavitù, mentre Cristo definisce il lavoro come attività del Padre, di Dio; il valore della materia, vale a dire l’abolizione del dualismo tra un aspetto nobile e un aspetto ignobile della vita della natura, che non esiste per il cristianesimo; la frase più rivoluzionaria della storia della cultura è quella di San Paolo: “ogni creatura è bene”; il valore del progresso, del tempo come carico di significato, perché il concetto di storia esige l’idea di un disegno intelligente. Questi sono i valori fondamentali della civiltà occidentale, a mio avviso. Non ne ho citato un altro, perché è implicito nel concetto di persona: la libertà”.10


C’è da aggiungere ancora la fiducia nella ragione che ha aperto la strada alla libertà e al progresso, rendendo possibili le straordinarie innovazioni intellettuali, politiche, scientifiche ed economiche che hanno portato tanto benessere e tanta sicurezza. Al contrario di altre religioni fondate sul mistero e sull’obbedienza, quella cristiana fin dalle origini ha insegnato che la ragione è il più grande dono che Dio abbia offerto all’umanità ed è alle vittorie della ragione – fede nel progresso, capacità innovativa, libertà personale, applicazione della ragione alle attività produttive – che si deve l’ascesa dell’Occidente.11

Di grande rilevanza, in particolare per la condizione femminile, è il valore riconosciuto dal cristianesimo alla donna che non è madre: accada ciò per scelta o involontariamente, per infertilità o per altri motivi. Considerando la sorte tuttora riservata alle donne sterili in numerose società, si capisce l’importanza di una religione che ritiene utile e preziosa persino l’esistenza di una donna incapace di generare figli per un uomo.

Un ulteriore elemento del messaggio cristiano decisivo ai fini della condizione femminile è il valore attribuito al lavoro che, rendendo le attività produttive degne dell’uomo e l’uomo fiero di svolgerle, allevia per donne e bambini l’onere delle funzioni economiche e rende immotivato lo status inferiore assegnato a chi le esegue. Ancora adesso, invece, la piaga dell’ozio dei maschi adulti, che schivano il lavoro e si appellano alle tradizioni per giustificarsi, è una delle cause maggiori di povertà in Africa e in altri continenti.

Ma prima di tutto è in una frase che si trova la chiave dell’emancipazione femminile: “Ogni creatura è bene”, uomo o donna che sia. A dimostrazione di ciò il cristianesimo prevede per maschi e femmine lo stesso rito di iniziazione alla comunità dei credenti, il sacramento del battesimo: un’eccezione forse unica rispetto alle tradizioni millenarie di innumerevoli società che a ogni stadio della vita ribadiscono con riti e cerimonie distinte il valore e il posto diverso assegnato ai due sessi.



IV. Se la libertà non è un valore. Le istituzioni possibili


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Altrove nel mondo le affermazioni di Rothbard e di don Giussani risultano incomprensibili ed estranee, persino minacciose e blasfeme.

Da 2000 anni per i cristiani la comunità biologica, carnale non è più l’unico destino dell’uomo. La religione cristiana propone una comunità, quella dei fedeli, alla quale chiunque, in qualsiasi momento della vita, può aderire per sua scelta, perché decide di credere, e dalla quale è libero di staccarsi, se perde la fede. Inoltre il cristianesimo chiede agli uomini di amare il prossimo come se stessi e di considerare “prossimo” ogni essere umano. Questo principio ha permesso che maturasse in Occidente un senso di responsabilità non più limitato ai membri della propria comunità. Benché imperfettamente realizzato, ha fatto della civiltà occidentale la prima società in cui è imperativo morale compatire e soccorrere chiunque si trovi in difficoltà, affine o estraneo che sia.

Invece dove non si è compiuta la rivoluzione antropologica occidentale, l’individuo conta soltanto in quanto componente di una comunità e in più non si concepisce che possa far parte di una comunità diversa da quella in cui è nato. Ai bambini si insegna a temere gli estranei, a evitarli, a diffidarne, a non ritenerli nemmeno umani; e ad essere fedeli, a oltranza, sempre e solo ai familiari, non essendovi possibilità di sopravvivenza senza di essi. Aiutare chiunque altro non è un dovere e addirittura può apparire come un tradimento perché significa sottrarre risorse alla propria comunità. Così l’identità si forma nella dipendenza da un gruppo di riferimento impermeabile e insostituibile.

All’interno di ogni comunità, poi, i diritti e i doveri di ciascuno sono determinati dalla posizione sociale che gli viene assegnata, e imposta, in base a fattori che idealmente si vorrebbero ascritti e quindi del tutto indipendenti dalla sua volontà e dalle sue capacità: il sesso, la famiglia d’appartenenza, e lo status ad essa attribuito nella comunità di lignaggio e tribale, l’ordine di nascita rispetto ai fratelli e la propria classe d’età, ovvero la propria generazione e la sua posizione gerarchica rispetto alle altre.

Se il sesso definisce una prima, rigida e inalterabile gerarchia sociale che pone le donne in posizione subalterna e assoggettata, un secondo principio fondamentale è la superiorità di chi è più anziano. Norme inviolabili impongono la supremazia dei primogeniti sui cadetti e delle generazioni più vecchie su quelle più giovani.

Il valore attribuito all’anzianità – che si traduce in regole che costringono addirittura a sacrificare l’ultima generazione a quelle precedenti – riflette l’orientamento rivolto al passato delle società tradizionali africane. Tutto in esse tende alla perpetuazione della comunità familiare originaria ideale e perfetta, quella dell’antenato fondatore: perpetuazione che si intende realizzata non solo assicurandole una discendenza, ma riproducendone sempre identici funzionamento, composizione, struttura e organizzazione. Quindi la missione dell’umanità, mai del tutto compiuta, è far si che ogni generazione consegni alla generazione successiva il mondo ricevuto da quella precedente intatto e immutato in ogni suo aspetto: affinché nei secoli dei secoli nulla cambi e – dagli attrezzi domestici ai riti, dalle tecniche di caccia alle regole di discendenza – la vita si svolga, generazione dopo generazione, esattamente come la vissero gli antenati fondatori.

Perciò è necessario che nulla, o il meno possibile, sia lasciato all’incertezza del caso e, dunque, all’arbitrio del singolo, alla facoltà individuale di scegliere, decidere e agire seguendo impulsi, inclinazioni, ragionamenti, desideri e sentimenti che rispecchiano personalità e caratteristiche – intellettuali, morali, fisiche – soggettive. Si può dire che ognuno ha il compito di passare sulla terra senza lasciare traccia di sé.

Ripensando ai valori e agli ideali della civiltà occidentale, “libertà” significa allora, prima di tutto, affrancamento dall’appartenenza ascritta e indissolubile alla comunità originaria e dagli status ascritti che prescrivono il destino di ogni individuo, i suoi diritti e i suoi doveri, dalla nascita alla morte. L’individuo divenuto ‘persona’ si vuole che sia indipendente, padrone di sé, pari a ogni altro essere umano per dignità e diritti, libero di cambiare se stesso e il mondo, di difendere le proprie scelte, di realizzarsi al meglio delle proprie capacità, di occupare gli status che, a prescindere dalle sue condizioni biologiche e sociali d’origine, le sue risorse fisiche, intellettuali e morali gli consentono di raggiungere e che può decidere di accettare o rifiutare in funzione dei propri progetti e delle proprie aspettative.

Un’altra citazione, tratta da un libro di uno storico americano, Samuel P. Huntington, aiuta a capire l’importanza di questo progetto per l’uomo. Nel descrivere la società america, egli dice che in essa:


ognuno è ciò che riesce a diventare. Gli orizzonti sono aperti, le opportunità sono illimitate e la realizzazione di esse dipende dall’energia, dal rigore e dalla perseveranza dell’individuo; in sostanza, dalle sue capacità e dalla sua voglia di lavorare”. 12


Di nuovo, come per i brani citati in precedenza, i concetti espressi da Huntington sono privi di significato per chi non partecipa della rivoluzione antropologica che afferma la centralità della persona umana oppure suonano come una sfida, un pericolo all’ordinato e corretto andamento dell’esistenza. Nelle società tradizionali africane gli status si vorrebbero indipendenti dalle doti e dalla volontà individuali. La possibilità di decidere di e da – in “orizzonti aperti” e con “illimitate opportunità” – è esattamente ciò che l’ascrittività degli status si propone di impedire.


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L’asservimento istituzionalizzato – soprattutto, ma non solo delle donne – è dunque consentito dal fatto che le società africane tradizionali non hanno elaborato il concetto di ‘persona’ e non riconoscono l’esistenza di diritti universali e inalienabili.

Nella tradizione tribale i diritti vengono attribuiti agli individui in base allo status che occupano, a sua volta, come si è detto, determinato ascrittivamente. Soltanto all’interno di un gruppo di pari, detentori degli stessi diritti, ha senso parlare di eventuali “discriminazioni”, ma pari non sono maschi e femmine e perciò non è necessario trattarli allo stesso modo: anzi, farlo significherebbe mettere in pericolo valori in cui tutti credono poiché la donna è e si ritiene debba rimanere socialmente inferiore all’uomo e a lui subordinata.

All’inizio di questa trattazione si è visto che cosa rende utili e irrinunciabili alcune delle istituzioni caratteristiche delle società tradizionali fondate su economie di sussistenza. Restava da spiegare che cosa le rende possibili: in altre parole, come siano concepibili istituzioni che comportano simili costi umani. Ora anche questo è chiarito.

Tuttavia è difficile rendere in tutta la sua portata quanto l’universo pietrificato, immutabile e prevedibile che costituisce l’ideale nella concezione africana tradizionale del destino umano pesi sulle scelte individuali e collettive, frenando ogni aspirazione a cambiare anche laddove è venuta meno la necessità di istituzioni di assoggettamento e di discriminazione.

La descrizione della vita tradizionale africana è un elenco di prescrizioni e divieti. In pratica, tutto ciò che non è imposto è vietato: i termini “dovere” e “proibito” ricorrono di continuo, ogni azione e ogni evento, ordinari e straordinari, sono regolati nei minimi dettagli.

Dire di un’etnia, ad esempio, che è patrilocale, e quindi che i figli maschi del capofamiglia devono vivere con il padre dopo il matrimonio, non rende affatto l’idea delle intricate regole che la struttura del più piccolo degli insediamenti deve rispettare. Lo status di ogni capofamiglia e l’ordine di nascita dei suoi figli maschi sposati stabiliscono la posizione delle loro rispettive abitazioni; spesso ai maschi non più bambini, ma ancora celibi è riservata una residenza a parte, situata anch’essa in un preciso punto dell’insediamento; l’interno della più semplice delle capanne e lo spazio che la circonda sono organizzati in zone maschili e femminili; ognuna delle mogli di un uomo ha una camera o un’abitazione anch’esse assegnate in base al suo status e a quello del marito.

La tradizione decide allo stesso modo ogni aspetto dell’esistenza a seconda della posizione sociale di ciascuno: quando, con chi e che cosa si deve e si può mangiare e bere; come vestirsi e adornarsi, come curare e abbellire viso e corpo; come, quando, con che cosa e con chi si deve lavorare.

L’osservanza delle consuetudini, per secoli, è stata garantita da potenti strumenti di controllo.

È infatti convinzione universale delle società tribali africane che alterare con atti, parole e omissioni il comportamento tradizionale e l’organizzazione sociale tradizionale scateni la collera degli antenati fondatori e delle potenze soprannaturali custodi delle norme. Qualsiasi trasgressione servirsi di un attrezzo mai usato prima, cambiare modo di vestire, sperimentare un ingrediente nuovo in cucina, trascurare o modificare qualche aspetto cerimoniale, specie quelli relativi a matrimoni, funerali e altri importanti riti di passaggio, alterare la struttura comunitaria acquisendo status diversi da quelli ascritti – rende colpevole e impuro chi la compie, anche quando è involontaria e inconsapevole (ad esempio, nel caso si mangi un cibo proibito senza saperlo), lo stato di colpa e di impurità si può estendere ai familiari del trasgressore e a tutta la sua comunità e la punizione è immediata e inevitabile, a meno che vi sia modo e tempo di rimediare mediante riti di purificazione e di espiazione.

Che in una comunità nessuno violi le regole è quindi interesse di tutti e le condizioni abitative prevalenti consentono a ciascuno di sorvegliare il comportamento altrui giorno e notte: tanto nei piccoli insediamenti composti da unità familiari costanti quanto nei centri urbani di grandi dimensioni dove le etnie e, se riescono, i lignaggi si insediano in case, strade e quartieri distinti ricreando per quanto possibile l’organizzazione e la struttura tribale e familiare tradizionale.



V. Conclusioni


Alla luce di quanto esposto, risulta innanzi tutto evidente che a distinguere l’Occidente cristiano dal resto del mondo non è un diverso grado di rispetto di valori peraltro condivisi. Dove il concetto di persona non è stato elaborato né assimilato i valori guida non coincidono con quelli maturati nei secoli in Occidente e che hanno trovato compiuta formulazione nella ‘Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo’.

Questo spiega come mai in tanti paesi che pure hanno adottato costituzioni nelle quali si garantiscono libertà, parità, sicurezza della persona, che hanno sottoscritto la ‘Dichiarazione Universale’ e che hanno aderito ai successivi protocolli proposti dalle Nazioni Unite in difesa dei diritti delle donne, tuttavia quei diritti siano quotidianamente violati. Per larghe fasce di popolazione le istituzioni di assoggettamento femminile, benché sanzionabili in base alla legge, mantengono un valore indiscusso, sancito dalla tradizione, e i principi costituzionali appaiono minacce al corretto funzionamento della vita sociale, illecite alterazioni di un ordine che deve essere mantenuto per salvaguardare gli ideali che da tempo immemorabile plasmano le comunità. I governi possono essere responsabili di non far rispettare i diritti umani e le leggi che li tutelano, ma non sono loro a imporre prezzo della sposa, mutilazioni genitali femminili, matrimoni combinati e forzati. Accade piuttosto che, per indifferenza e convenienza, nella consapevolezza di andare contro il comune sentire quando si contrastano le istituzioni tribali, lascino che la gente continui a vivere secondo le proprie tradizioni intervenendo solo in casi clamorosi, resi tali, ad esempio, dall’intromissione dei mass media che li rendono di dominio pubblico e provocano reazioni internazionali.

Diverso è il discorso per quanto concerne gli stati che hanno optato per la legge coranica e che respingono o accettano con riserve la ‘Dichiarazione’ e i protocolli delle Nazioni Unite: il Sudan, ad esempio, li ritiene inapplicabili proprio perché il loro contenuto contrasta con le prescrizioni della shari’a in merito alla condizione femminile.

In secondo luogo, ed è di estrema importanza riconoscerlo, bisogna guardarsi dalla tentazione di dividere il mondo in “buone” e “cattivi”, “vittime” e “carnefici”. Le donne, come gli uomini, sono per lo più fedeli alle tradizioni: non solo indotte a ciò dalla paura di sanzioni, ma anche dalla spontanea condivisione dei valori fondanti delle società alle quali appartengono, frutto di un processo di socializzazione ben riuscito. Nessuna società, per quanto ferocemente repressiva e autoritaria, potrebbe conservare a lungo le proprie istituzioni se metà dei suoi componenti non le approvassero. Pur patendo a causa loro, la maggior parte delle donne contribuiscono a perpetuarle giustificandole e incaricandosi ogni giorno di farle rispettare, certe che ciò sia bene.

Occorre inoltre sottolineare che nei contesti tradizionali benché siano le donne – e i minori di entrambi i sessi – a soffrire di più, in realtà nessuno è libero, neanche gli uomini. Nemmeno i maschi possono sottrarsi senza pagarne le conseguenze agli status ascritti che nel corso della loro esistenza sono chiamati a ricoprire. È superfluo dire che, dove la libertà non è un valore, le istituzioni non la concedono a nessuno. Ignorarlo è di ostacolo ai tentativi di liberare le donne dalla condizione di sottomissione e marginalità in cui vivono nelle società tradizionali poiché impedisce di comprenderne organizzazione, funzionamento e struttura.

Infine discriminazioni, violenze, limitazioni alla libertà istituzionalizzate sono causa e non effetto di povertà.13 La diffusa tendenza a spiegare le istituzioni di assoggettamento con la povertà, e non viceversa, ha conseguenze negative sia sul piano della interpretazione dei fatti sia su quello della lotta per l’emancipazione femminile nei paesi in via di sviluppo. D’altra parte il fatto che esistano società e culture che non sono in grado di superare il livello delle economie di sussistenza a causa delle loro istituzioni e, inevitabile considerazione complementare, il fatto che cristianesimo e capitalismo siano i due fenomeni che più hanno contribuito a migliorare la condizione umana, e perciò anche quella della donna, concorrendo a creare società più libere e paritarie, sono realtà che tre influenti ideologie del momento – femminismo antagonista, terzomondismo, ambientalismo catastrofista convergenti nel movimento antioccidentale detto ‘noglobal’ – hanno reso sempre più difficile riconoscere e ammettere.14








1 Docente in Sociologia dei processi culturali, facoltà di Scienze Politiche, Torino





Docente presso l’ Istituto superiore di studi sulla condizione della donna, Master Donna cultura società, Università Pontificia Regina Apostolorum, Roma.

Ricercatore in Storia e istituzioni dell’Africa, dipartimento di Scienze Sociali, Torino


2V. Desiderio Pirovano, Economia arcaica o di rapina, presentazione del Cardinale Camillo Ruini, Rubettino, 2003.

3V. Serge Latouche, L’altra Africa tra dono e mercato, Bollati Boringhieri, Torino, 2000. L’espressione è usata più che altro per indicare una presunta, maggiore attenzione al fattore umano delle economie di sussistenza, sacrificata al profitto – sostengono le ideologie antioccidentali – dalle economie di produzione.

4I lignaggi accomunati dalla discendenza da un unico capostipite, di solito mitico, formano i clan e le tribù che tuttora concorrono a determinare la struttura sociale e politica in Africa.

5Claudio Moffa, L’Africa alla periferia della storia, Guida, 1993, p.220.

6 V. Anna Bono, La nostra Africa. Una catastrofe annunciata, Il Segnalibro, Torino, 1998.

7V. Renato Kizito Sesana e Stefano Girola, La Perla Nera. L’altra Africa sconosciuta, Paoline, Milano, 2002.

8 Murray N. Rothbard, Freedom, Inequality, Primitivism and the Division of Labor, Institute for Human Studies, Menlo Park, 1971, p.3.

9V. Paul Johnson, La nascita del moderno 1815-1830, Corbaccio, Milano, 1994.

10 “Appunti da una conversazione di Luigi Giussani con un gruppo di Comunione e Liberazione, New York, 8 marzo 1986”, Tracce-Litterae Communionis, febbraio 2002.

11V. Rodney Stark, La vittoria della ragione. Come il Cristianesimo ha prodotto libertà, progresso e ricchezza, Lindau, Torino, 2006.

12Samuel P. Huntington, La nuova America, Garzanti, 2005, p.88.

13V. Desiderio Pirovano, Poveri perché? Un cristiano si interroga, Sperling & Kupfer, Milano, 1995; Carlo M. Cipolla, Uomini, tecniche, economie, Feltrinelli, Milano, 1962.

14V. Alessandra Nucci, La donna a una dimensione. Femminismo antagonista ed egemonia culturale, Marietti 1820, Genova-Milano, 2006.

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