ALCUNE DECLINAZIONI DELL’ETICA

del Prof. Mario D’Antino1



L’animale economico e l’essere spirituale

Storicamente nel mondo europeo sono avvenute due grandi fratture di capitale importanza. La prima concerne il distacco del diritto naturale da diritto divino e dal messaggio religioso. Tale distacco, perfezionato da studiosi quali De Groot e Pufendorf nella seconda metà del secolo XVII°, condusse alla totale laicizzazione del diritto, che da allora in avanti si portò su teorie meramente utilitaristiche e ad indicare nell’autoconservazione materiale del singolo e del gruppo la suprema legge naturale di ogni vita associata.

La seconda frattura è quella verificatasi fra economia e sfera religiosa : prima della Riforma protestante, l’economia appare ancora dominata dall’etica (ed anche dalla religione), soggetta ai precetti e ai giudizi di valore di quelle. Finita la bufera della Riforma ci si rende conto (Tawney) che nell’immagine dell’uomo l’”animale economico” ha avuto ragione dell’”essere spirituale”, per cui chi opera nel mondo degli affari può considerare la sua attività come qualcosa di estraneo alle preoccupazioni etiche.

E’ appena il caso di segnalare che anche dove alcune correnti della Protesta religiosa e dell’intrapresa economica appaiono strettamente legate, questa connessione si risolve in un rilevante incentivo per l’economia (M. Weber).

La secolarizzazione del diritto e dell’economia ha contribuito non poco ad eliminare ogni fine veramente trascendente nello Stato illuministico. Anzi, essa aiutò poderosamente quelle forze che tendevano a fare della “gemeinde Wollfahrt” e cioè del “comune bonum” (oggi diremmo dello Stato sociale) un razionale sistema di comodità meramente materiali intrecciate al principio dell’utile individuale (Cristian von Wolff). L’uomo ha il “dovere” di essere felice” ed ha il “diritto” a perseguire tutte le cose che servono a procurare e ad accrescere la felicità. E quando la natura non produce spontaneamente in misura sufficiente i beni necessari ad una vita felice e comoda, ognuno ha il dovere di svolgere quelle attività che possono moltiplicare tali beni (“hominibus laborandum est”).

Wolff considera indispensabili alla perfezione umana anche i beni spirituali e i valori morali, ma la sua “vita felice” è tutta dominata dalla essenzialità dei requisiti materiali, dell’agiatezza materiale che poi saranno tipici della civiltà borghese, quindi dell’ideologia collettivista e infine dell’odierna lotta per un migliore ed omogeneo “tenore di vita”.

Al riguardo, la Cameralistica tedesca dei secoli XVI e XVII insegnava che le entrate del regnante potevano essere riscosse e migliorate nel tempo e quindi applicate al mantenimento della comunità, in modo che ogni anno risultasse un’eccedenza: Inoltre essa fu trascinata ad impensabili sviluppi in quanto il settore finanziario si rivelò sempre più essenziale per la vita dello Stato moderno, al punto che alla esigenza iniziale di far accrescere la capacità contributiva dei sudditi, l’assolutismo barocco subordinò ogni altra funzione e preoccupazione amministrativa.

Non può dirsi che oggi la morale non venga più coltivata: il discorso morale, le istituzioni etiche, la problematica della vita morale vengono ancora profondamente studiati da molteplici punti di vista, ma non allo scopo di stabilire delle norme pratiche di vita, una “scientia regia”indirizzata alla virtù e alla felicità.

Già Kant aveva detto che la legge morale è scolpita nel cuore di ogni uomo e non occorrono regole filosofiche per stabilirla o scoprirla, avendo il pensiero filosofico il solo compito riflesso e teoretico di analizzarne le condizioni e di indagarne i fondamenti. Ma oggi in generale non si crede più che qualcosa come la legge morale sia scolpita in qualcosa come il cuore degli uomini (una metafora dall’incerto significato). Più che a trovare presunte certezze per vivere, la filosofia odierna sembra tendere a rilevarne le reali incertezze, la effettiva pluralità di mondi, di destini, di beni e di valori. Giustamente un filosofo americano ha detto che la stessa conoscenza è un fatto, non un problema.


La morale e l’etica

Il nome di “etica” viene da una parola greca, che significa “costume”, press’a poco come il latino “mos”, da cui deriva il termine “morale”. L’espressione “ta etikà”, usata da Aristotele, deriva non dal plurale di “etos”, (abitudine, costume), bensì dal plurale di “Eta” (dimora e, solo secondariamente, “abitudine”, “costume”, carattere”). In sostanza, la virtù etica nasce dall’abitudine.

I movimenti delle cose possono essere infinitamente ripetuti, ma soltanto l’uomo “prende l’abitudine”, ossia modella la sua libertà e si costruisce un “carattere” (Jacques Lacan). La felicità si identifica con lo “star bene dell’anima”, e quindi con l’attività contemplativa, libera da particolari interessi ed affari, compimento dell’umano, pienezza di senso. La felicità è il punto di arrivo di un difficile cammino, ma non è svincolata dal cambiamento che, colpendoci incessantemente con la sua destabilizzazione, è il principio del male.

La felicità diviene l’affermazione e l’espansione della libertà intesa come valore autonomo della persona e sfera dei valori emananti direttamente da essa. Ma in questo modo si viene a contrapporre al costume e al diritto, ai loro valori e alle loro norme, come un’altra sfera di valori e di norme, avente una sua universalità formale di fronte alla generalità sostanziale di quelli. Al regno del “costume” si oppone il regno della “ragione”. Il bene dell’uomo è l’esplicazione dell’attività razionale, la quale costituisce l’opera propria, specifica, essenziale dell’uomo stesso.

Caratteristica è dunque l’identificazione del valore con l’Essere: “omne ens est bonum, verum, pulchrum”(S. Agostino, seguito da tutti i moralisti metafisici). In fondo è l’idea di Platone, secondo il quale la virtù è essenzialmente una sola: l’unità dell’anima con se stessa, ossia l’armonia delle diverse parti dell’anima, risultante dal fatto che ciascuna compie l’opera propria, la giustizia, che volta a volta assume i nomi di temperanza, fortezza, saggezza.

Etica” e “morale” non sono termini strettamente sinonimi, anche se entrambi indicano il sistema riflesso di concetti, giudizi, norme, valori che si riferiscono alla condotta dell’uomo. Invero, da Hegel in poi si è introdotta con vari nomi una distinzione tra il sistema del costume, in quanto in certo senso collettivo, o per lo meno fissato da norme comuni in un gruppo umano, e il sistema della moralità, quale insieme di atteggiamenti, più o meno riflessi, di singoli che li ritrovano nella loro coscienza morale.

Si consideri che all’idea della “moralità” teorizzata da Kant, si contrappone, come più oggettiva e più vera, l’”eticità” (Sittlichkeit), che a sua volta si trasfonde nel diritto. Però, come il rapporto tra singolo e società è estremamente complesso e dialettico, così lo è il rapporto tra eticità e moralità.


Il “dover essere” o morale pragmatica

La forma più immediata che assume la riflessione quando si volge al mondo del costume è quella che si chiama comunemente “morale”, nel senso di morale pragmatica. Tale morale tende a fissare norme, istituti, abiti tradizionali di un gruppo umano tramite esempi, norme, precetti, consigli, precetti, giudizi universali di valore. La si trova espressa in forma corrente nelle sentenze moralistiche, nei giudizi della gente comune, nei proverbi popolari, nelle prediche o nelle motivazioni dei giudici.

In ogni epoca è esistito il tentativo di fissare in astratto e in via universale modelli e precetti che vengono opposti come “dover essere” alla realtà dei comportamenti di fatto del gruppo, alle deviazioni che nel gruppo si possono riscontrare da parte di individui o di gruppi. In questa universalizzazione di modelli, norme e valori compaiono le fondamentali categorie etiche.

Principale fra tutte è la virtù, che indica il possesso in grado eminente di qualità-valori, cioè di quelle qualità per cui una persona o una cosa è pregevole e stimabile.

Riferita al mondo etico, la virtù muta con il mutare dell’ideale umano, secondo i vari gruppi sociali, la loro struttura economica e politica, la loro cultura (valore militare, prudenza strategica, fedeltà alla parola data, lealtà, oppure, nel mondo contadino, parsimonia, oculatezza, laboriosità). A volte la virtù si può dissolvere nelle “virtù”, senza però alterare il suo primo significato di eccellenza, possesso di qualità-valore. E a queste si contrappongono i “vizi”, come qualità negative dal punto di vista dell’eccellenza e del valore.

La filosofia morale è insieme pragmatica e teoretica, che fonde al suo vertice l’essere e il dover essere: in realtà, il principio supremo della moralità è inteso come legge morale e dover essere, ma di fronte ad esso stanno, come fatti irriducibili, senza i quali la moralità stessa perde il suo significato, il male, il peccato, ecc.

Si consideri che Newton aveva studiato i fenomeni naturali non con l’intento di derivarne norme o principi pratici di valutazione, ma con quello, meramente conoscitivo, di scoprire le leggi che regolano i fatti della vita morale.

A sua volta, Kant ha dichiarato che il compito della filosofia morale non è quello di dedurre le norme morali, che di fatto sono incise nel cuore del più semplice degli uomini; bensì quello di chiarire i fondamenti e i presupposti del giudizio morale, allo scopo di liberarlo da incertezze empiriche.

Per Kant il diritto si distingue nettamente dalla morale, in quanto è caratterizzato dalla sua positività. Ne derivava che il problema del diritto naturale deve essere trattato nell’etica, in una dottrina dei costumi che cerca ancora, in quanto etica giuridica, di dare una soluzione al problema del diritto “giusto”; ma che tuttavia avanza delle esigenze da considerare come delle direttive ideali per il diritto nelle sue realizzazioni concrete e non più come norme di validità immediata, capaci di sospendere la validità del diritto positivo.

Al di là di ogni esperienza, c’è una verità che Kant nelle sue “Critiche” ha posto al centro della sua morale: cioè la convinzione che il carattere distintivo dell’uomo in quanto tale debba essere cercato nella sua facoltà di autodeterminarsi, nella sua qualità di persona morale. Ne deriva che le norme giuridiche che non riconoscono l’uomo come persona morale, ma lo degradano a mero oggetto, non sono vincolanti, anche se imposte con la forza. Inoltre, nemmeno l’etica materiale dei valori può fondare norme di diritto naturale.

La filosofia hegeliana si fonda invece su una concezione della storia come processo necessario e razionale, graduato in varie fasi, a ciascuna delle quali corrisponde un determinato principio etico, cosicché i cambiamenti storici non possono mettere in discussione la validità dei principi delle azioni morali.

Successivamente, l’etica materiale dei valori di Scheler e Hartmann assume particolare importanza per le correnti giusnaturalistiche: i supremi principi materiali del diritto, al rispetto dei quali è tenuto anche il legislatore, dovevano essere fondati su valori etici indipendenti dall’arbitrio soggettivo e fissati in un dato ordine gerarchico.

Nel mondo moderno, mentre la philosophia naturalis è il discorso sui fatti fisici, la philosophia moralis è il discorso sui costumi (mores) o sui comportamenti nei quali si estrinseca la natura dell’uomo nella sua attuale integrità, compresa la sua “seconda natura”, cioè il complesso delle modificazioni sedimentate, e quindi permanenti, indotte dalla cultura di una società.

La “morale”, come si è innanzi visto, non è sinonimo di “etica”. L’”etica”, usualmente intesa, senza distinzione dalla “morale” è la forma stessa, necessaria, della vita umana. Si può vivere da uomini senza essere artisti, o mercanti o soldati o politici o religiosi, ma non lo si può senza essere “morali”, senza cioè trovarsi di fronte a norme e ad obblighi e incontrandosi o scontrandosi con altri.

L’etica è la vita stessa nella sua immediata umanità. Come tale, essa è il fatto della “prassi”, dal greco “pragma”, che significa “azione” o anche il risultato dell’azione, cioè l’intervento volontario a modifica della realtà data.

Ma “etica” è anche un discorso oggettivo ben definito nell’ambito degli “oggetti”, che attiene all’umano in quanto funziona nel corpo della vita e ne coltiva alla radice l’umanità.

Analoga distinzione va posta tra l’”etica” quando detto termine si usa quale sinonimo di “morale”, cioè come il fatto della reale condotta volontaria dell’uomo, e l’etica intesa come “idea”, universo di concetti o di assiomi del discorso, strumentali all’intelligenza dell’agire. (Masullo, Filosofia morale, Ed. Riuniti, Roma, 2005, p.37).

Il mondo cosiddetto “morale” segna il momento in cui nella causalità necessaria della “natura” irrompe la libertà della “cultura”. Goethe volge l’esordio evangelico “In principio era il Verbo”, culmine della sapienza antica, nell’altro, proprio dell’ideologia moderna “In principio era l’Azione”. L’azione implica la libertà nel soggetto che agisce, la presenza a sé e il calcolo o la ragione progettuale, in definitiva il desiderio come volontà.

Si comprende allora che con il termine “morale” si intende la sfera pratica, l’ambito della prassi, che è il motore della vita della cultura, in sostanza, l’azione dominata dall’intelletto. L’agire, infatti, non è un semplice muoversi, non è il cieco impulso del desiderio, ma la proposta di un desiderio assistita dalla ragione. Se l’operare della volontà è libertà, il desiderio solo sotto forma di volontà entra nel discorso “morale”.

Come efficacemente è stato detto (Masullo, op. cit., p. 139), quando mi rapporto ad un altro, avvertendone, pur dietro l’incancellabile maschera di estraneo il pulsare autentico di un altro io, è allora che divento altruista in uno slancio di libertà etica, senza che vi sia alcun obbligo. Io vivo il senso dell’altro come l’altro io, perché il mio prossimo tacitamente mi chiede di essere riconosciuto e trattato come io. Questa obbligazione che mi impone il rispetto dell’estraneo è propria dell’esperienza morale, è un “udire la voce della coscienza” a cui la legge è stata consegnata. Lo stesso “amore” è comunione in cui ogni io si origina contestualmente a un “tu”, alla cui chiamata risponde, è l’”amore”, che, secondo la bella espressione di Platone, si attiva nel fervore dell’etica.


Etica e finanza

Se dalle speculazioni teoriche innanzi illustrate si passa ad aspetti pratici, si osserverà che una caratteristica dell’epoca della globalizzazione è quella del ruolo e del peso che ha assunto la finanza ai diversi livelli. Fino a poco tempo fa le notizie dei mercati finanziari occupavano nei telegiornali e nell’informazione in generale un ruolo del tutto secondario che interessava solo gli esperti. Oggi non è infrequente il fenomeno in cui l’apertura dei notiziari è data da informazioni sull’andamento della finanza e in particolare del mercato borsistico nel mondo. Cosicché è potuto accadere che una crisi della borsa in Cina ha trascinato nella discesa del mercato le principali piazze mondiali per non pochi giorni.

Non si tratta di un interesse culturale, ma di una più aggiornata concezione di investimento dei propri risparmi che, indotta dai nuovi scenari della finanza globalizzata e dall’introduzione di nuove tecnologie, ha generato una sorta di febbre di “fare soldi” in fretta e in maniera ottimale. Somme ingenti di danaro sono in continuo movimento durante tutto l’arco della giornata alla ricerca del miglior profitto e del rendimento più immediato. I vari operatori di borsa, messo da parte ogni vecchio sistema, stanno elaborando nuovi prodotti e nuovi programmi per rendere più appetibile l’investimento e più accettabile il rischio.

E’ a questo punto essenziale tener presente un problema che emerge nell’analisi del fatto finanziario come fatto tecnico, e cioè quello della sua controllabilità, e cioè di valutare se sia possibile avere un indirizzo nei fenomeni complessi che si intersecano nella finanza o se si sia invece innescato un processo che tende a sfuggire a ogni intento ordinatore, con connessi problemi di ordine morale.

E’ poi da evitare di identificare ciò che è moralmente buono con ciò che è giuridicamente permesso. Invero, la prospettiva giuridica è settoriale rispetto a quella morale, che ha invece carattere globale. Il diritto coniuga la moralità con le possibilità della società e con la limitata affermazione storica del valore morale, usando la forza coercitiva che invece non è il connotato della morale.

Una giusta allocazione dei beni materiali deve ricevere adeguata protezione giuridica all’interno di una società. Ma il discorso riguarda il livello europeo sia per le novità legate all’introduzione dell’euro, e alla sua stabilità, sia per gravi distorsioni derivanti dalle forti differenze, quanto al trattamento fiscale dei diversi impieghi di ricchezza finanziaria in titoli esistenti tra i vari Paesi in Europa.

In particolare, i fenomeni speculativi a breve e a brevissimo termine sono oggi ingenti, frenetici e volatili. Tali fenomeni coinvolgono in tempo reale i flussi finanziari internazionali in tutte le piazze del mondo e impediscono, tra l’altro, il formarsi di flussi di capitali a medio e lungo termine che dovrebbero prioritariamente essere diretti verso i Paesi più poveri, i quali necessitano di risorse per il loro sviluppo economico.

Non è quindi possibile considerarli in termini positivi, ma occorre considerarli per quello che sono effettivamente, senza false ipotesi sulla loro neutralità e sul ruolo efficace dei loro frenetici andamenti.

Non sono neppure sufficienti i c.d. codici di comportamento o deontologici che prevedono il soddisfacimento di determinati requisiti o di specifiche regole nei comportamenti degli operatori, quali la trasparenza, l’onestà, l’imparzialità, la professionalità, ecc.

In realtà, per qualificare come eticamente valida una certa condotta occorre qualcosa di più che una correttezza meramente formale, che si può acquisire solo dando alla condotta personale un valore di carattere generale. E’ necessario, in sostanza, che si parta da principi generali di etica sociale, quali quelli della morale cattolica. L’eticità non si può restringere ad una generica correttezza dell’operatore, ad es., verso i mandanti, ma è necessario introdurre nelle strutture profonde del mercato le esigenze della morale, quali sono espresse normalmente dal principio del bene comune.

Allo stesso modo, la riforma dei meccanismi di gestione delle imprese quotate in borsa stabilisce il ruolo che devono avere all’interno di una società i vari fattori che la compongono e quali poteri e diritti devono essere riservati alle minoranze azionarie. La democrazia sul campo economico può essere conseguita attraverso vari strumenti, ma è innegabile che i rapporti fra maggioranza e minoranza azionaria possono concorrere a raggiungere l’obiettivo di fare dell’azienda una “società di persone”, oltre che di capitali (v.encicl. Centesimus annus, 43), in modo che sia promossa l’attiva partecipazione di tutti alla vita dell’impresa e la comproprietà dei mezzi di lavoro (encicl. Laborem excersens, 14). Si tratta di diminuire le distanze tra i grandi e i piccoli azionisti (tra i quali i soci dipendenti) ai quali ultimi non va consentito il solo potere di contestare le decisioni prese dai proprietari (grandi azionisti), ma la partecipazione alla loro formazione.


Etica nelle comunicazioni sociali

I principi e le norme etiche importanti in altri campi lo sono anche nel settore delle comunicazioni sociali. Sono sempre da tenere in evidenza i principi di etica sociale come la solidarietà, la sussidiarietà, la giustizia, l’equità, l’affidabilità nell’uso delle risorse pubbliche e nello svolgimento dei ruoli che si fondano sulla fiducia della gente.

La comunicazione, in particolare, deve essere sempre veritiera, perché la verità è il fondamento della libertà individuale. L’etica nelle comunicazioni sociali non riguarda solo ciò che appare sugli schermi televisivi o cinematografici, nelle trasmissioni radio, su internet o sulla carta stampata e non tocca solo il contenuto della comunicazione – il messaggio – e il modo come viene fatta la comunicazione, ma anche questioni strutturali che spesso coinvolgono temi relativi alla politica di distribuzione delle tecnologie e dei prodotti sofisticati.

Nelle aree del messaggio e del processo di comunicazione vi è un principio etico fondamentale: la persona umana e la comunità umana sono il fine e la misura dell’uso dei mezzi di comunicazione sociale (Giovanni Paolo II, Sollicitudo rei socialis, 29, 46).

Inoltre, anche se le comunicazioni sociali avvengono per le esigenze e gli interessi di gruppi particolari, non dovrebbero essere fatte in modo da mettere un gruppo contro l’altro, in nome di conflitti di classe, di un nazionalismo esagerato, della supremazia razziale, della pulizia etnica, ecc.

Nonostante il loro immenso potere, i mezzi di comunicazione sociale sono solo strumenti utilizzabili per il bene o per il male, solo che noi lo vogliamo. Non richiedono una nuova etica, ma l’applicazione di principi acquisiti a nuove circostanze, e tutti, non solo gli specialisti della comunicazione o della filosofia morale, abbiamo un ruolo in questo.

Non è dubbio che è difficile comunicare in maniera concreta e onesta con gli altri in modo che non si danneggi alcuno, ed anzi che si serva al meglio gli interessi di tutti. Nella comunicazione sociale, inoltre, le difficoltà vengono ingigantite dall’ideologia, dal desiderio di profitto e di controllo politico, da rivalità e conflitti fra gruppi. I mezzi di comunicazione sociale oggi accrescono la dimensione della comunicazione, la sua quantità, la sua velocità, ma non rendono meno fragile e sensibile e meno incline al fallimento sul piano morale.

Vi sono poi da risolvere i problemi nati dalla commercializzazione e dalla privatizzazione della comunicazione non regolamentata: qui non basta un controllo dello Stato sui media, ma occorre una disciplina più importante, conforme al norme del servizio pubblico e una maggiore responsabilità pubblica.

Occorre essere sempre a favore della libertà di espressione, che è anche un servizio alla società. Ma sotto il profilo etico, questo presupposto non è una norma assoluta e irretrattabile. Non è una norma assoluta, ovviamente, quando la comunicazione diviene calunnia, diffamazione, diviene messaggio che cerca di promuovere l’odio e il conflitto fra individui e gruppi, diviene oscenità, volgarità e pornografia, descrizione morbosa della violenza. Anche la libera comunicazione dovrebbe osservare principi quali la verità, la correttezza, il rispetto per la vita privata.


L’amministrazione dell’impresa tra regole ed etica

Da alcuni anni le regole di condotta che disciplinano l’amministrazione dell’impresa, la “corporate governance” è di grande rilievo, fin da quando si è cominciato a ritenere che la grave crisi del sistema capitalistico americano (e, successivamente, di quello europeo ), fosse da ricondurre al latente conflitto di interessi tra manager e azionisti, che è il connotato del modello anglosassone della proprietà diffusa, aggravato dall’uso eccessivo di alcune modalità di remunerazione. Ma non è da escludere che la crisi del sistema capitalistico sia da ricondurre al deterioramento dei valori etici fin qui posti a fondamento della comunità di affari americana ed europea.

Neanche in Italia il fenomeno è assente, pur se nel nostro sistema prevale un capitalismo a carattere familiare, dove l’imprenditore esercita un controllo diretto sulla gestione aziendale. Basti pensare ai casi Cirio e Parmalat e ad altri meno clamorosi e più recenti, che hanno dato luogo ad un dibattito mai sopito sull’efficacia del nostro sistema di controlli sui mercati finanziari, oltre che su alcune deviazioni del nostro capitalismo.

Gli scandali societari americani ed europei hanno ampliato l’attenzione sui meccanismi di controllo interno alle società, sull’operato dei soggetti che svolgono il controllo esterno, come le società di revisione, le agenzie di rating, le banche d’investimento, le azioni esercitate dalle Autorità di vigilanza.

Nell’ambito dello Stato, di fronte all’insufficiente azione dei controlli interni, si sono mosse alcune normative, quali il decreto legislativo n. 29 del 1993, il n. 165 del 2001 ed altre normative più recenti, fino alla disposizione dell’art. 1, comma 593 della legge finanziaria 2007, in tema di remunerazione di incarichi ad estranei all’Amministrazione.

E’ interessante notare che tale ultima normativa, che ha ricevuto già maggiori esplicitazioni e chiarimenti con due successive direttive emanate dalla Presidenza del Consiglio nei primi mesi del 2007, fa divieto di elargire - ai dirigenti pubblici provenienti dall’esterno, ai consulenti, ai membri di commissioni e di collegi e ai titolari di qualsivoglia incarico affidato dallo Stato, da enti pubblici o a società a prevalente partecipazione pubblica non quotate in borsa – remunerazioni superiori a quelle spettanti al primo presidente della Corte di cassazione (circa 273,5 euro). E’ previsto l’obbligo della massima pubblicità dell’incarico e la comminatoria di elevate sanzioni in caso di inottemperanza.

Vero è che le direttive hanno circoscritto l’ambito di applicazione della predetta normativa. Così, per consulenze, occorre far riferimento a quelle caratterizzate da durata e continuità e non quelle riferite a patrocinio legale, ad incarichi di progettazione e simili; dall’ambito dei membri di commissioni e di collegi devono escludersi gli incarichi di componente di collegi quando questi costituiscono gli organi di enti o apparati destinatari della disposizione; per “titolari di qualsivoglia incarico” devono intendersi quelli conferiti a supporto dell’azione amministrativa di enti, società, amministrazioni con carattere di continuità e di durata (non dovrebbero rientrare i contratti di servizio a società, come gli incarichi di revisione).

E’ stato però rilevato che la direttiva pone a carico di amministrazioni e società a prevalente contribuzione pubblica oneri aggiuntivi di difficile determinazione e rilevanza comportando l’estensione dell’adempimento a qualsiasi tipo di incarico, comunque denominato e quindi non solo ai mandati defensionali o di progettazione, ma anche a quelli di partecipazione a collegi sindacali e quelli di revisione.


I rapporti soci-amministratori nelle s.p.a.

L’amministrazione statunitense ha cercato di reagire con tempestività agli scandali varando nel giro di pochi mesi (luglio 2002) la c.d. legge Sarbanes-Oxley, dal nome dei due senatori di opposte coalizioni, che l’hanno proposta. La forte stretta impartita con tale riforma al complesso sistema dei controlli societari ha contribuito al graduale ritorno della fiducia nei mercati azionari americani che si è protratto con oscillazioni fino ad oggi.

Anche nei Paesi europei sono state intraprese misure di razionalizzazione della struttura societaria: così, a livello comunitario va menzionata la decisione di imporre ai bilanci di gruppo delle imprese quotate, a partire dal 2005, di avvalersi dei principi contabili internazionali.

In Italia sono state adottate significative misure di riordino, quali la radicale riforma del diritto societario (entrata in vigore nel 2004), la nuova disciplina del fallimento, una revisione del Codice di autodisciplina per le società quotate in Borsa, una nuova legge che ha ridisegnato i compiti delle Autorità di controllo sulle società e sui mercati finanziari.

E’ sempre al centro dell’attenzione il dibattito sull’amministrazione delle s.p.a., sul complesso rapporto che intercorre tra soci, titolari delle ragioni imprenditoriali, ed amministratori che sono tenuti a gestire quell’interesse (del c.d.”principale agente”).

Sempre sotto il profilo della deontologia e dell’etica dei rapporti è attuale il tema dell’organizzazione e delle modalità secondo le quali i controlli possono essere effettuati in via diretta o indiretta dai soci all’interno delle società, soprattutto per verificare l’efficienza dei tradizionali sistemi di controllo interno, spesso messa in discussione dai non infrequenti scandali finanziari.

E’ noto che i controlli interni riflettono i rapporti tra soci attivi, assemblea e amministratori, atteso che i soci sono in parte assenti e non in grado di esercitare i diritti del socio. Ne deriva che la governance riguarda gli amministratori, mandatari dei soci per la tutela degli interessi dei soci; i soci titolari a titolo singolo, di diritti (dividendi, voto, negoziati); l’assemblea, ove occorre fare la distinzione tra i soci attivi nell’esercizio del voto e i soci di mercato, solo interessati al dividendo finale e alla negoziazione delle azioni e dei titoli. Sicché i soci attivi divengono di fatto, dei fiduciari dei soci di mercato.

La governance si articola in due ordini di discipline: a) la disciplina dei controlli idonei ad assicurare che sia assicurata la cura degli interessi dei soci e degli investitori; b) la disciplina che fornisce ai soci di mercato azioni da esercitare a salvaguardia del loro investimento, presso gli organi di vigilanza o presso i tribunali.

I controlli sono esercitati in primo luogo dagli stessi soci che con il loro voto nominano gli amministratori: ma può verificarsi che anche i soci di controllo siano amministratori e possano trovarsi in situazioni conflittuali con i soci di mercato. I conflitti si compongono nelle assemblee.

I controlli sono disposti nei confronti degli amministratori come controlli contabili e di legittimità, di rispetto della legge e dello statuto. Lo stesso Consiglio di amministrazione nelle società di medio-grandi dimensioni sono da considerarsi più come organi di controllo sull’amministratore delegato, che essi stessi gestori. L’operatività dei controlli esercitati dalle società di revisione, dai collegi sindacali o dagli amministratori indipendenti dipendono dalla volontà politica del legislatore di renderli efficaci.

Maggiore è il numero dei soci, la diffusione del capitale, minore è l’incisività dei controlli che i soci possono apprestare per mezzo dell’assemblea. Ciascuna delle variabili legate alle caratteristiche della proprietà, società aperta o a ristretta base azionaria, presenza di soci di controllo, ecc., determina condizioni particolari, delle quali occorre tener conto per garantire il corretto funzionamento dell’amministrazione e dei controlli.

Il secondo aspetto riguarda l’indipendenza del soggetto chiamato a svolgere il controllo, l’adeguatezza dei poteri di cognizione, la presenza di sanzioni, la specificazione di apposite incompatibilità.



La riforma del diritto societario

L’evoluzione economica ed industriale e l’introduzione per le società di quotate di un insieme di regole più avanzate (TUF del 1998, seguito dal codice di autodisciplina delle società quotate del 1999) aveva determinato uno scostamento tra la realtà economica e la disciplina societaria del codice civile.

Il legislatore del 2003, in particolare, superando lo schema del 1942 (che affidava ai soci interessati all’esercizio dell’impresa il reperimento dei mezzi di sostentamento), apre verso i capitali di rischio, ai quali corrisponde una differenziazione di disciplina a seconda che l’impresa si avvalga di detti capitali, o meno. All’apertura a capitali di terzi corrisponde un rafforzamento dei presidi di trasparenza e di controllo; mentre viene riconosciuta una maggiore flessibilità e semplificazione alle società c.d.”chiuse” (s.r.l. e s.p.a. a capitale non diffuso).

Nelle società “aperte” la riforma riprende molte disposizioni del T.U. sulla finanza (TUF), estendendole anche alle società non quotate, ma a capitale diffuso. Così, in attuazione alle norme che stabiliscono il principio della separazione dei controlli contabili dai controlli sull’amministrazione, vi è l’obbligatorietà della revisione dei bilanci da parte di società di revisione, l’introduzione di strumenti giudiziari a tutela delle minoranze, la previsione di obblighi informativi sugli assetti societari.

Vengono anche ridefiniti, nell’ottica dell’eticità delle funzioni, poteri e responsabilità dei componenti dei vari organi sociali e diversamente articolate le responsabilità degli amministratori secondo le mansioni ad essi attribuite, prevedendosi in capo agli amministratori delegati, titolari di funzioni operative, più penetranti responsabilità e alleviando quelle degli amministratori non esecutivi, ai quali compete, nell’ambito del consiglio si amministrazione un generale dovere di monitoring sulla correttezza dell’operato degli organi esecutivi.

Nella stessa ottica si colloca il tema dei conflitti di interesse tra amministratori e società e tra società appartenenti allo stesso gruppo. Privilegiando i profili di trasparenza, la riforma ha previsto una disciplina più rigorosa rispetto al passato, imponendo agli amministratori di comunicare al consiglio di amministrazione e all’organo di controllo qualsiasi interesse, anche non in contrasto con quello della società, che essi possano avere in una determinata operazione, astenendosi e rimettendo al consiglio di amministrazione, quando siano titolari di delega.

Lo stesso schema basato su obblighi di informazione e di motivazione è seguito anche in materia di gruppi di imprese, sotto tre diversi profili: a) responsabilità della holding verso i soci e i creditori delle controllate; b) trasparenza della struttura di gruppo e dei suoi processi decisionali e c) previsione di garanzie a favore di soci di minoranza e di creditori delle controllate.

E’ stata modificata sostanzialmente, pur in presenza di acceso dibattito, la disciplina del falso in bilancio che ha sostituito all’unica ipotesi delittuosa, due nuove fattispecie contravvenzionali, in cui il bene giuridico tutelato è la trasparenza del mercato e una delittuosa in cui invece il bene tutelato è il patrimonio della società. Il livello delle sanzioni non si discosta da quanto previsto dagli ordinamenti degli altri Stati europei, ma la riduzione delle sanzioni ha comportato una riduzione dei termini di prescrizione del reato e l’inapplicabilità delle intercettazioni telefoniche e ambientali.


I codici di autoregolamentazione

Le best practices si fondano, com’è noto, su una serie di principi condivisi di etica e di buon governo (good governance) di impresa. Il successo di tali pratiche è basato sull’adesione o meno ad essi da parte delle imprese. In sostanza le imprese si conformano a regole ulteriori in termini di correttezza e trasparenza – in Italia riassunte nel Codice di autodisciplina per le società quotate del 1999, rivisto nel 2002 – rispetto a quelle adottate in sede legislativa, per attrarre gli investitori, i quali, pertanto, dovrebbero selezionare le imprese più meritevoli di fiducia, anche sulla base delle garanzie addizionali da queste offerte.

L’importanza dei codici di autoregolamentazione verso il mercato e la propensione delle imprese ad adeguarvisi va ricondotta proprio alla non vincolatività dei principi in essi espressi. All’attualità risulta che nel nostro Paese l’adesione alle raccomandazioni del Codice ha raggiunto percentuali che vanno dall’80 al 100% e ciò garantisce l’effettività delle regole di corporate governance.


L’agire politico e l’agire amministrativo

Anche nell’ambito della pubblica amministrazione il problema dell’etica non è meno rilevante. In questo campo, la struttura non rappresenta l’unica risposta alla domanda “come è organizzata la funzione amministrativa”, poiché è necessaria la rappresentazione dinamica del fenomeno, e quindi fare l’analisi dei processi. Non esiste una sola struttura organizzativa, ma esistono diverse versioni: una formale e una informale, rappresentativa, quest’ultima, del potere de facto, e cioè maturato sul campo e che implica una evoluzione della prima struttura, una sequenza di strati della stessa in rapporto dialettico.

Ogni struttura ha la funzione di condizionare gli individui, ma viene modificata e aggiustata dagli stessi mediante le loro azioni, influenze e strategie. Il processo organizzativo è l’insieme delle dinamiche che organizzano i rapporti tra persone, unità organizzative e intere istituzioni che, agendo all’interno delle strutture, esercitano una pressione su di esse, fino a cambiarle. Queste dinamiche sono rappresentate: a) dalle scelte, che vengono prese individualmente o collettivamente per intraprendere corsi di azione che si ritengono idonei per raggiungere uno scopo, attraverso strutture gerarchiche che determinano le decisioni di uffici e di individui; b) dall’attuazione delle scelte, e cioè dai comportamenti diretti a realizzare le scelte, la cui linea di attuazione può subire mutamenti per imprevisti e ripensamenti.

In sostanza, processi e strutture sono due facce della stessa medaglia: da un lato vi è la organization, e cioè la struttura dei rapporti stabilizzati e dall’altro, l’organizing, che si identifica nel flusso di azioni che plasma la struttura e costruisce l’organizzazione.

La funzione amministrativa è un processo mediante il quale alcune premesse vengono trasformate in risultati. Premesse le intenzioni politiche a monte di qualunque azione pubblica, queste recano in sé l’intenzione di generare un impatto sulla realtà, e cioè dei risultati mediante la messa in opera di una volontà di governo.

Le premesse dànno vita all’azione amministrativa vera e propria, attraverso due fonti: da un lato le normative emanate da organi legislativi e, dall’altro, delibere e programmi promulgati da organismi esecutivi, con la caratteristica di essere, almeno tendenzialmente, generali e astratti.

A monte delle intenzioni si trova la politica, il dibattito delle arene parlamentari e degli organi esecutivi che conduce alla formazione del progetto, da cui origina il lavoro dell’amministrazione.

Esercitare la funzione di governo con la logica della governance significa riconoscere che il comparto pubblico non è in grado da solo di risolvere problemi complessi quali lo sviluppo economico, la tutela dell’ambiente, della salute, la realizzazione di un sistema funzionante dei trasporti, ecc. Per cui la governance consente di trovare le forme e i modi per contemperare interessi molteplici della società e per rispondere in maniera soddisfacente alle molteplici attese della collettività (stakeholders).

Si noti che sotto il profilo dell’etica dell’agire, il limite di demarcazione tra sfera politica e sfera amministrativa non può definirsi a priori. Dipende dal tipo di contesto istituzionale, dal settore di politica pubblica, dalle modalità con le quali il processo politico a monte è giunto a definire le premesse, e cioè i programmi, gli obiettivi, le delibere. Insomma, il processo amministrativo dipende da ciò che con termine anglosassone si identifica con l’input (letteralmente: immissione) e cioè le idee, i soggetti i valori, le motivazioni che provengono dal governo.


La responsabilità sociale dell’impresa

Le teorie economiche dell’impresa, che si sono sviluppate originariamente negli Stati Uniti e poi si sono diffuse in larga parte del mondo distinguono nettamente le attività in business oriented e non business oriented (quelle che non hanno una razionalità economica assoluta ma una razionalità sociale separabile dal puro criterio del profitto).

Ma questo tipo di sistema economico, dopo essere prevalso nei confronti dei sistemi di economia pianificata e centralizzata, non è riuscito a dare risposte soddisfacenti alle previsioni, attese e speranze di poter realizzare la diffusione generalizzata dello sviluppo economico e del progresso umano, civile e sociale nel mondo e all’interno di singoli paesi. Non è stata infatti eliminata né la disuguaglianza tra i livelli di benessere dei singoli paesi, né all’interno dei singoli paesi; inoltre, in molti paesi e per alcune classi sociali non sono garantiti servizi ritenuti essenziali per la persona (almeno secondo la cultura occidentale), quali la tutela della salute, l’istruzione, la sicurezza dei lavoratori, ecc.

Da un lato, infatti, le regole del mercato e della concorrenza hanno contribuito a creare ricchezza, ma dall’altro ne hanno causato la distruzione, come nei casi dei fallimenti di imprese e dispersione di risorse, saperi e professionalità. Del resto, né le norme giuridiche, né le regole del mercato, né i controlli di vario tipo (contabili, finanziari, di gestione) effettuati dai diversi organismi quali le società di certificazione e di revisione, le “autorità” di vigilanza sui mercati e sulle imprese sono stati sufficienti ad evitare comportamenti illeciti, non rispondenti a criteri di razionalità economica, finalizzati a un uso delle imprese per fini personali e particolari e comunque impropri.

E’ vero che le imprese possono essere “di proprietà” di qualcuno, ma esse sono anche patrimonio dell’intera società che va quindi salvaguardato; e il contributo dell’impresa non può essere limitato all’ottenimento di specifici risultati, né può essere misurato da singoli indicatori (valore aggiunto, valore di mercato dell’azienda, profitto), ma dall’apporto che essa dà a molti aspetti della società Esso quindi deve tener conto degli effetti esterni alla società (ad es., l’inquinamento produce costi per la sua eliminazione; gli incidenti sul lavoro producono costi per il recupero della salute).

Il paradigma di responsabilità sociale mira a porre principi di conduzione dell’impresa che consentano di massimizzare la soddisfazione di tutti gli interessi convergenti su di essa (teoria degli stakeholders) e di rendere positiva la differenza tra effetti positivi e negativi prodotti indirettamente sulla società o su altri soggetti.

Così, l’impresa deve attuare politiche attive per il personale con l’adozione di modalità organizzative più idonee a valorizzare le conoscenze, le competenze e le capacità delle persone, con la promozione e il sostegno allo sviluppo professionale, con la creazione di un ambiente di lavoro di elevata qualità che valga a non far considerare il lavoro come pena.

Rientrano nella logica della responsabilità sociale anche interventi finalizzati all’inserimento lavorativo di immigrati, nonché azioni di prevenzione, controllo ed eliminazione di molestie sessuali, condizionamenti psicologici, emarginazione dal lavoro (c.d. mobbing). Del pari sono da evitare scelte di impresa che, di fronte alla possibilità di conseguire elevati ricavi per l’imprenditore e gli azionisti, comportano il rischio molto elevato di causare una crisi strutturale dell’impresa e la perdita irreversibile di posti di lavoro.

Vi sono altre declinazioni della responsabilità sociale, le cui deviazioni più rilevanti sul piano dell’etica, possono indicarsi, a titolo esemplificativo, nelle seguenti:

a) nei confronti dei fornitori, l’impresa che sfrutti la propria forza contrattuale nei confronti delle imprese di piccole dimensioni o in stato di difficoltà economiche; o che imponga condizioni di prezzo, di consegna, di pagamento che creano ai fornitori elevati rischi di fallimento; o che contesti in modo strumentale la qualità delle forniture, i tempi di consegna, per ottenere vantaggi economici nella fase di esecuzione (sconti esosi, adattamenti e modifiche gratuite, ecc);

b) nei confronti dei clienti, quando si vendono beni che possono risultare nocivi, o si utilizzano comunicazioni ingannevoli, o si sfruttano fatti emotivi o condizioni particolari (legate alla moda, ai momenti di punta delle vacanze) per trarre il massimo vantaggio di breve periodo;

c) nei confronti dei finanziatori, l’impresa che offra condizioni (tassi d’interesse, tempi di rimborso) che non sono sostenibili dall’impresa o correlati a scelte d’investimento ad elevato rischio di cui i finanziatori non sono a conoscenza;

d) nei confronti delle pubbliche amministrazioni, ove non è accettabile un’impostazione secondo cui inadempienze di una delle parti (ad es., sprechi delle p.a.) possano giustificare una minore correttezza di altri soggetti, ovvero l’adozione di comportamenti conflittuali e non collaborativi che generano costi sociali.

E’ invece sintomo di responsabilità solidale un comportamento dell’impresa che realizzi opere di pubblica utilità (asili nido, strutture per anziani), o partecipi a programmi di recupero territoriale o sostenga la ricerca e la formazione, o consenta l’accesso della collettività a servizi garantiti ai dipendenti (ad es., assistenza sanitaria a popolazioni sottosviluppate da parte di imprese petrolifere), o collabori alla ricostruzione in caso di calamità naturali, emergenze, iniziative umanitarie e simili.

Sotto questo profilo vanno ricordate alcune iniziative di matrice bancaria attive nel campo sociale ed etico. Le banche etiche hanno soprattutto l’obiettivo di investire in progetti di validità sociale, ad es., finanziando iniziative imprenditoriali di persone o aree geografiche che non possono canalizzare spontaneamente risorse finanziarie. A questo scopo le banche creano appositi fondi, definiti di microcredito, ai quali spesso aderiscono organizzazioni senza fini di lucro, fondazioni e investitori privati. Le caratteristiche fondamentali riguardano le procedure per l’accesso al fondo e le garanzie richieste dalla banca a fronte del prestito concesso. Tali garanzie sono spesso solidali, cioè prestate da un gruppo di persone che rispondono solidalmente al prestito concesso.

Queste iniziative sono spesso realizzate con il contributo di importanti organizzazioni non governative locali o internazionali; inoltre, al contrario di quanto accade nel settore bancario tradizionale, le banche etiche non consentono una grande operatività sul web, ma utilizzano questo canale come finestra per informare la collettività sulle attività intraprese.

Per alcune tipologie di attività Banca Etica assolve un ruolo parallelo a quello delle MAG (Mutuo Auto Gestione), che sono istituti regionali italiani aventi lo scopo di raccogliere capitali e finanziare iniziative di elevato scopo sociale a tassi vantaggiosi. Normalmente occorre compilare un questionario di valutazione socio-ambientale per richiedere un finanziamento e il regolamento del comitato etico incaricato di verificare l’eticità delle iniziative finanziate e in generale la complessiva operatività della banca.

1 Presidente di sezione della Corte dei Conti